Progressi lenti, anzi lentissimi sul fronte della ripresa dei negoziati di pace per il Sud Sudan.

Il Forum di Addis Abeba convocato per “rivitalizzare” il processo negoziale nel Paese africano, ancora in balia della guerra tra forze governative e d’opposizione, ha sostanzialmente fatto un buco nell’acqua.

Dal 17 al 22 maggio la capitale etiope ha ospitato un incontro di alto livello, per cercare di aprire nuove strade nel ginepraio Sud-sudanese.

Ma dopo ore di colloqui a porte chiuse, nel corso delle quali i delegati hanno discusso soprattutto di sicurezza, governance e condivisione dei poteri (power sharing), s’è trovata intesa solo su tre punti su undici.

L’intoppo maggiore sta nell’ impossibilità di accordarsi su quella formula vaga ma pregnante di senso: “divisione” o condivisione dei poteri. Che è il vero tallone d’Achille dei contendenti: ognuno fatica a cedere qualcosa, o meglio ognuno vorrebbe per sé una fetta in più di potere.

Il Forum era mediato dall’ Intergovernmental Authority on Development (IGAD) e voluto dai leader religiosi, oltre che dai rappresentanti del governo.

Il South Sudan Council of Churches (organismo interreligioso che ha preso l’iniziativa) ha condotto negoziati privati per cercare di estendere il margine di manovra finalizzato al compromesso.
Tuttavia alla fine del quinto giorno di lavori i leader religiosi hanno rimesso la responsabilità ad un blocco di otto paesi.

Michael Makuei Leuth, portavoce del governo guidato dal Presidente Salva Kir, ha detto: «sulle questioni relative alla sicurezza si è concordato sul criterio dell’”acquartieramento” ed è stato accettato l’articolo 2 (del dossier ndr.)», trovando una intesa anche per unificare le forze di sicurezza.

Inoltre si è convenuto per un temporaneo cessate il fuoco. Questi i tre punti di sostanziale accordo.

Ma rimane aperta la questione di fondo: come fare per suddividersi i poteri, le zone di influenza e di governo?

L’arcivescovo anglicano Justin Badi si è dimostrato soddisfatto almeno per l’obiettivo minimo raggiunto sul cessate il fuoco, sebbene questo non metta la parola fine alla guerra.

«Sono lieto di far sapere che tutte le parti in causa – ha dichiarato – si sono impegnate per la cessazione delle ostilità e per rimanere ognuno al proprio posto e per questo ringraziamo Dio».

Le donne attiviste del Sud Sudan hanno chiesto un incremento della partecipazione femminile al processo di pace.

In particolare i membri della South Sudan Women Coalition for Peace vorrebbero essere più presenti nel processo negoziale: «Siamo vestite di bianco oggi – hanno detto alla stampa – perché vogliamo dire ai nostri leader che è tempo di decidere per il nostro Paese, di decidere per la pace».

Padre Christian Carlassare, missionario comboniano in Sud Sudan dal 2005, ci ha spiegato tempo fa che la cosa paradossale qui è che la guerra ha assunto i connotati di guerriglia oramai, ma fa lo stesso migliaia di morti: «nè il governo nè le opposizioni hanno più la forza militare per combattere: ci sono stati troppi morti nei primi tre anni di conflitto.

Tuttavia, se inizialmente il conflitto era circoscritto al governo da una parte e un preciso gruppo di opposizione dall’altra, adesso ci sono tanti gruppi che si oppongono al governo e hanno una propria agenda non sempre chiara. Spesso legata agli interessi locali di un gruppo specifico».

Il governo legittimo sembra sempre più interessato a mantenere il potere con l’intenzione di reprimere questi gruppi piuttosto che dialogare con la popolazione locale.

«Purtroppo già nel 2013 il paese ha imboccato la strada sbagliata – dice il missionario – di una politica che esclude e che quindi ha fatto cadere il paese in un conflitto interno che prende una colorazione etnica. Il processo di dialogo nazionale infatti, nonostante stia offrendo un’arena di dialogo per molte persone, non sembra essere inclusivo e non da’ garanzie».