La rubrica dei missionari rientrati, questo mese fa tappa a Vicenza, da don Gigi Fontana, partito fidei donum nel novembre 2010 per il Brasile, destinazione Roraima, stato amazzonico brasiliano ai confini con il Venezuela -dove la diocesi di Vicenza ha una missione- e rientrato nel giugno del 2016.
- Don Gigi: in Roraima cos’ha trovato?
Innanzitutto la grande sorpresa di lavorare con le comunità indigene, una possibilità che non era stata messa in conto, ma che è stata per me una bella occasione. Entrare nelle maloche, ovvero nei villaggi indigeni, vedere la loro organizzazione è stato interessante e mi ha insegnato molto anche dal punto di vista dell’evangelizzazione.
- Ci spieghi..
Tra le comunità indigene si condivide molto, non ci sono steccati, quando si celebra si sente una partecipazione straordinaria. Riescono ad essere comunità, a sentirsi comunità in maniera straordinaria vivendo e gestendo assieme i conflitti ma anche i momenti di gioia. Poi anche loro vivono la modernità: a fianco della lancia per cacciare hanno la motoretta a benzina per portare i loro prodotti al mercato.
- Boa Vista, Roraima, Amazzonia sperduta…
Si, posto remoto. Roraima, lo stato, fa 500 mila abitanti dei quali 400 mila oggi sono concentrati nella capitale, Boa vista e dintorni. Vicenza è presente con missionari e missionarie: vita comunitaria, progettualità comune condivisa con la chiesa locale. In Brasile, nel lavoro non solo con le comunità indigene ma anche con le comunità alla periferia della città, mi sono sentito valorizzato nel mio ministero sacerdotale, mi sono sentito riconosciuto, segno di unità di vari ministeri, non di sintesi dei vari ministeri. Per dire, non avevo la chiave di nessuna delle cappelle della comunità, tutti erano autonomi, tutti avevano il loro compito, inserito nei vari ministeri. Ho vissuto una grande partecipazione dei laici che hanno coscienza di essere chiesa, e lo vogliono essere. E non è solo perché il prete non può arrivare dappertutto.
- Nel 2016 rientra in Italia e…
E torno a fare il parroco nel vicentino. Anche qui le comunità si stanno organizzando a vivere senza parroco come presenza stabile. In Brasile non mi è mai stato chiesto di riparare qualcosa o di sottoscrivere progetti economici. Ci pensavano i laici delle comunità, in autonomia. Venivo cercato per quello che sono, ovvero un prete. Qui è molto più difficile.
- Cosa la guida oggi nelle sue scelte pastorali?
Due cose: uno, in ogni situazione mi chiedo: chi è più svantaggiato?, chi ci sta perdendo in questa situazione? E da li capisci da che parte stare. E poi il bisogno di fraternità, di condividere. Non si tratta di mettere in piedi fraternità naif o di facciata, ma di rendere veramente conto a qualcuno, sempre.
- E una volta identificato il più svantaggiato?
Partire sempre dal vangelo, credo che sia molto più concreto dei nostri programmi pastorali. Se non partiamo da li ci riempiamo di “liturgismi”, che non servono e allontanano la gente. Io voglio fare la casa del Vangelo, dove due volte al giorno si legge la Parola con una stanza adiacente per gli ospiti, per quelli che bussano alla porta, e ne bussano tutti i giorni, stranieri e italiani. Siamo chiamati a fare pulizia, liberarci di tante strutture, dando segni profetici. La diocesi, a dire il vero, non ci sta aiutando molto: è tempo di smantellare, diventare esili e camminare dietro al Signore ma ogni volta la paura delle reazioni blocca tutto. Io penso che dobbiamo riflettere sulla Laudato si’ e sulla Fratelli tutti. Pensavamo di vivere sani in un mondo malato, il covid in pochi mesi ci ha mostrato che non è così e ha messo in discussione il nostro mondo. La Fratelli tutti ci dice che non esiste il prima noi, prima gli italiani. Siamo tutti fratelli. C’è molto lavoro da fare (e ride).