A dieci anni dalle denunce puntuali contenute nel Rapporto Mapping delle Nazioni Unite (oltre 600 pagine fitte di dati e testimonianze), la Repubblica democratica del Congo è ancora nel baratro, ad un passo dalla balcanizzazione. Il Paese vive in bilico tra guerre interne e violenza settaria, soprattutto contro le donne.

«Sono 27 anni di silenzio e di impunità, sotto gli occhi della comunità internazionale – ha denunciato l‘attivista congolese John Mpaliza – Tutte le persone che dovevano sapere, ora sanno. La comunità congolese sta organizzando molte iniziative, il Parlamento europeo ha fatto una proposta di risoluzione che chiede ai Paesi di fare in modo che l’Onu riprenda il rapporto mapping e che le raccomandazioni siano messe in atto».

Ma è necessario «alzare il tiro» per ottenere giustizia. Serve un Tribunale penale internazionale ad hoc contro i massacri che proseguono da quasi 30 anni, impunemente. A chiederlo sono gli attivisti della diaspora congolese, intervenuti oggi al dibattito presso l’Agenzia stampa Dire, a Roma, alla presenza di esperti, giornalisti e rappresentanti della Chiesa e delle istituzioni.

«Il vescovo di Uvira rischia la pelle, perchè è un diplomatico ma dice quello che va detto. Non sappiamo neanche più quante siano le fazioni di ribelli in Congo, si parla di un centinaio – ha denunciato padre Filippo Ivardi, comboniano, direttore di Nigrizia – Le violenze aumentano contro i civili. La prima lente per poter leggere il Rapporto mapping è il tradimento. Ossia quello di una classe politica che ha tradito il suo popolo e questo non lo dico io, lo dicono i vescovi». 

Ma anche il tradimento da parte delle Nazioni Unite, dice. La seconda lente, ha aggiunto padre Ivardi, «è la neo-colonizzazione degli attori esterni: Paesi occidentali che ne approfttano e in ultimo, la terza lente, quella del saccheggio economico». E’ necessario unire le forze per fare giustizia sostenendo la società civile congolese.

I vescovi del Congo sono intervenuti per chiedere che si metta al centro l’interesse del popolo, ha ripetuto ancora il comboniano Ivardi.

«Io sono qui per riportare la voce delle donne congolesei che continuano ad essere violentate. Loro mi hanno chiesto di denunciarlo: è questo che stanno subendo. La violenza è un’arma di guerra in Congo, ma quando si destabilizza la donna è la famiglia intera che viene destabilizzata e il Paese ne risente», ha detto Brigitte Kabu, attivista per i diritti umani. 

«La via della pace è tortuosa, e noi siamo stanchi – ha aggiunto ancora Mpaliza –  Il Rapporto nasce quando si scoprono delle fosse comuni nel 2005 e tiene conto dei massacri dal 1993 al 2003». Ma cosa è successo dopo? Altri massacri e altra violenza in diverse zone della Repubblica Democratica del Congo, soprattutto nell’est del Paese, nella zona del lago Tanganika. Gli attivisti, la Chiesa locale e la società civile chiedono di mettere fine ad una trentennio di morte e sofferenza.