Quel che succede in Sudan è molto più che una protesta di popolo per il rincaro del prezzo del pane, peraltro triplicato nel giro di poche settimane.

Le manifestazioni di piazza represse nel sangue, iniziate il 19 dicembre ad Atbara, nel nordest del Paese, rappresentano una esplicita richiesta di dimissioni del presidente e di stop al regime dittatoriale.

La gente, soprattutto gli studenti e la classe operaia, non ne possono più del National Congress Party e di Omar Hassan al Bashir, al potere dal 1989. Chiedono «libertà, pace giustizia e il cambio del regime».

La stampa occidentale ha interpretato finora i disordini violenti scoppiati in ben 23 città del Sudan, prevalentemente come bread riots, proteste del pane. E in effetti ad accendere la miccia è stato il rincaro della farina e del prezzo finale del pane, che scarseggia.

Ma non è tutto qui: il Washington Post spiega bene che questa interpretazione riduttiva non tiene conto della mobilitazione totale della working class sudanese, in particolare nelle piccole città periferiche dove le misure di austerità adottate dal National Congress Party hanno annientato i lavoratori.

«Non è un caso che le manifestazioni siano partite ad Atbara – scrive il quotidiano – famosa per il potente sindacato dei lavoratori delle ferrovie».

Ad Atbara le proteste sono state particolarmente violente e sui social circolavano a dicembre le foto della sede del partito di governo in fiamme: dura la reazione delle forze di polizia, due persone uccise, decine i feriti. E’ scattato lo Stato di emergenza.

La novità stavolta è che a guidare la protesta non sono solo i sindacati organizzati (che comunque nel corso degli ultimi dieci anni hanno subito il pugno di ferro del governo e in parte infiltrazioni di regime). Ci sono anche formazioni indipendenti di agricoltori ed operai, quelle che tra il 2012 e il 2014 hanno fatto rete con gli studenti organizzando «proteste creative», poi represse nel sangue.

Ma c’è un secondo dato da non sottovalutare: in questi giorni gli storici leader dell’opposizione a Bashir sono tornati alla carica e qualcuno è perfino rientrato dall’esilio come l’ottantatrenne leader del National Umma Party, Sadiq al-Mahdi, assente per oltre dieci mesi dal Paese.

Questo, dicono gli editorialisti, può voler dire molte cose, tra cui il fatto che la vecchia guardia si prepara a prendere il potere, dopo eventuale colpo di Stato o deposizione non violenta di Bashir.

Bisognerà capire se gli studenti e gli attivisti sono d’accordo nel farsi scippare la libertà e l’autonomia, da formazioni politiche che non li rappresentano o che vogliono deporre il despota per sostituirlo ma senza introdurre riforme vere.

Un semplice cambio di regime non garantisce la democrazia e questo popolo sembra stanco di dittatori sanguinari.

Foto d’apertura dal sito di Albababwa