In Sud Sudan il “macro-conflitto” per la spartizione del potere tra leader ed etnie (al momento sotto controllo), nasconde un’altra contesa. Si tratta di una lotta più capillare e per certi versi più antica e profondamente radicata: quella per la terra.

E’ una «contesa ancestrale tra pastori da una parte e agricoltori dall’altra», ci spiega suor Elena Balatti, missionaria comboniana a Juba.

«Queste etnie sono da sempre in conflitto per la gestione dei pascoli. Ma la conflittualità interna che un tempo veniva tenuta sotto controllo, è esplosa in maniera esponenziale e violentissima da quando nel Paese è stato introdotto un fitto commercio di armi leggere e pesanti».

La missionaria conosce bene le dinamiche socio-economiche interne; ha messo a punto uno studio delle ragioni più profonde alla base della guerra civile tra il presidente Salva Kiir e il suo ex nemico Rieck Machar, conclusasi con un accordo di power sharing a giugno scorso finalizzato al 50%.

E ci spiega che «questi elementi entrano in grave conflitto quando chi ha il potere delle armi può esercitare pressioni tali da sbilanciare gli equilibri. In precedenza i gruppi controllavano il territorio usando lance, archi e frecce. Se fino a 30 anni fa una razzia di mucche poteva portare ad un conflitto limitato, adesso genera una carneficina».

Il decennio precedente alla scoperta dei pozzi petroliferi coincise con un flusso di armi pesanti e leggere che giungevano nel Paese. E da allora la conflittualità si è trasformata in guerra aperta.

«In questo momento la tensione politica è scesa – conferma suor Elena – ma ciò che affligge maggiormente il Paese (lo Stato più giovane al mondo, nato il 9 luglio 2011 ndr.) è il conflitto endemico tra i gruppi etnici per il controllo delle risorse. Avvengono contrasti sia tra coloro che vivono di sola pastorizia e possiedono grandi mandrie di mucche, che tra questi ed altri gruppi etnici dediti all’agricoltura. L’accesso delle mandrie ai terreni coltivati deve essere limitato, altrimenti i raccolti vengono distrutti dalle mucche e questo genera tensione».

Lo scenario è complesso: il Paese è diviso oggi in 10 Stati e tre amministrazioni. «Ci sono Stati più appetibili di altri, quelli che possiedono risorse petrolifere e oro. A prescindere da queste risorse, però, l’agricoltura è una grandissima ricchezza, così come la pastorizia».

Spiega ancora la comboniana che «la terra possiede un valore intrinseco. E’ un legame di generazioni: come nell’Antico Testamento la vigna di Nabot, il quale non voleva concederla al re perchè era legata alla tradizione dei propri antenati».

Per l’attuale pacificazione del Sud Sudan ha avuto un ruolo di primo piano la visita che i due leader, non ancora del tutto pacificati, fecero nel 2019 al Papa in Vaticano.

Il gesto estremo del pontefice che bacio loro i piedi ebbe un effetto incommensurabile sul futuro del Paese e sulla successiva tregua. Tanto che portò alla firma di un accordo di pace, oggi perfezionato. Tuttavia nonostante il negoziato che pare reggere, il Paese vive sempre in stato di allerta.

«La sicurezza qui non esiste: nelle zone dedite alla pastorizia le persone vivono in una costante insicurezza, vittime delle scorrerie armate – sono ancora le parole di suor Elena –  La Chiesa locale in tutti i modi interviene per mediare nei processi di pacificazione locale».

«Nelle zone ad alto rischio le parrocchie hanno la pace come priorità. Se i giovani non hanno prospettive di vita, non possono uscire da questo circolo vizioso, per questo la missione punta tutto sulla scuola, sull’istruzione, sulla costruzione di modelli altri».