Percorso sempre più accidentato e irto di ostacoli per il Sud Sudan, che non riesce ad emergere dal buco nero della guerra civile.

La decisione del Parlamento di Juba di estendere di altri tre anni il mandato al Presidente Salva Kiir, ha innervosito le opposizioni che hanno definito del tutto “illegale” questa mossa.

La notizia è giunta a pochi giorni dal rifiuto di reinsediare il leader dei ribelli Riek Machar alla vicepresidenza, con la motivazione che avrebbe fallito nel tentativo di diluire il potere di Kiir.

«Questo dimostra che il regime sta bluffando al tavolo negoziale – ha detto alla Reuters Mabior Garang de Mabior, portavoce del gruppo dei ribelli – La comunità internazionale non dovrebbe legittimare questa mossa e il regime dovrebbe essere dichiarato mendace».

I parlamentari hanno votato all’unanimità per un emendamento alla Costituzione che adesso dovrebbe passare al vaglio di Kiir per diventare legge. La modifica estende di fatto il mandato al presidente, al vicepresidente e ai legislatori e ministri fino al 12 luglio del 2021. La ragione addotta è che questa estensione consente di non avere dei vuoti di potere e facilita la governabilità.

Quest’anno si sarebbe dovuti tornare al voto ma il persistere del conflitto non consente l’organizzazione di elezioni libere. L’ultimo round negoziale per la pace ad Addis Abeba (a maggio scorso) è praticamente fallito, nonostante le alte aspettative.

«Stavolta c’erano buone speranze riguardo a questo ennesimo tentativo di firmare un accordo di pace tra la fazione del presidente Salva Kiir e quelle legate al suo vice Riek Machar (in esilio in Sudafrica, ndr) – ci aveva spiegato al telefono da Juba suor Elena Balatti, missionaria comboniana – Eppure ad Addis Abeba non è emersa alcuna soluzione definitiva e nessuna firma da parte dei gruppi in conflitto».

La novità è il ruolo giocato dalla religione.

«E’ tradizione in Sudan – spiega la religiosa – che le Chiese non si limitino solo a pregare per la pace ma ogni volta che ci sono iniziative politiche chiedano di essere presenti per offrire assistenza spirituale e consigliare le parti in gioco».

Tanto che poco dopo è arrivata l’attesa notizia direttamente dal Vaticano: la Santa Sede aprirà una nunziatura apostolica a Juba. E chissà se stavolta  il volano del Papa per la stipula di un accordo di pace funzionerà.

Ad Addis Abeba dopo ore di colloqui a porte chiuse, nel corso delle quali i delegati hanno discusso soprattutto di sicurezza, governance e condivisione dei poteri (power sharing) tra forze governative e di opposizione, non s’è trovata la quadra. C’è intesa solo su tre punti. Però le Chiese forse stanno iniziando a smuovere le acque.

«La fiducia che l’Igad (organismo regionale dei Paesi dell’Africa dell’Est che ha organizzato i colloqui, ndr) ha nelle Chiese rivela quanto il negoziato sia estremamente difficile a livello politico e militare – spiega ancora suor Elena – Il gruppo che ha la responsabilità della mediazione ha ceduto al Consiglio ecumenico delle Chiese i primi giorni di negoziato: ha lasciato cioè che fossero i leader religiosi a far dibattere gli elementi più salienti delle parti in conflitto».

L’altra novità di questi colloqui di pace sostanzialmente falliti, sono state le donne, che hanno chiesto un ruolo per compiere anch’esse una mediazione. La South Sudan Women Coalition for Peace vorrebbe essere più presente nel processo negoziale: «Siamo vestite di bianco oggi – hanno detto alla stampa le donne ad Addis Abeba – perché vogliamo dire ai nostri leader che è tempo di decidere per il nostro Paese, di decidere per la pace».

A conti fatti, l’intoppo maggiore rimane quella formula vaga ma pregnante di significato: “divisione” o condivisione dei poteri (power sharing). Che è il vero tallone d’Achille del Sud Sudan: ognuno fatica a cedere qualcosa, o meglio ognuno vorrebbe per sé una fetta di potere in più. Al termine dei lavori Michael Makuei Leuth, portavoce del governo di Salva Kiir, ha detto: «Sulle questioni relative alla sicurezza si è concordato il criterio dell’ “acquartieramento” ed è stato accettato l’articolo due (del dossier, ndr)», trovando una intesa anche per unificare le forze di sicurezza.

Inoltre si è convenuto per un temporaneo cessate il fuoco, che però ad oggi non è stato rispettato. Sul campo non ci sono più solo due contendenti, ma le milizie e i gruppi armati affiliati ora al presidente ora al suo oppositore, sono molteplici e nessuno vuole cedere porzioni di spazio all’altro.

«Né il governo né le opposizioni hanno più la forza militare per combattere – ci spiega al telefono padre Christian Carlassare, comboniano in Sud Sudan dal 2005 – Tuttavia, se inizialmente la guerra era circoscritta, adesso ci sono tanti gruppi che si oppongono al governo e hanno una propria agenda non sempre chiara».