Il bisogno profondo di seguire l’esempio di Cristo povero, di riproporre in forma assoluta il raccoglimento e la preghiera di Gesù al monte, che è connessione mistica col Padre, dilaga in tutto l’Occidente e in Oriente nei secoli successivi alle persecuzioni dei martiri. Il cristianesimo si va affermando progressivamente e con esso cresce a partire dal IV secolo d.C. la spiritualità monastica. Anzi, essa diventa la forma più sublime attraverso la quale poter unire meditazione contemplativa e vita povera. Annoverare la vita dei monaci delle grandi regole, da san Benedetto a san Francesco, come parte della storia della missione, potrebbe apparire azzardato. Ma in realtà, per certi versi il monachesimo è profondamente missionario. Poiché esso rappresenta il ritorno all’assoluto e alla preghiera dopo aver sentito il bisogno di affermare a gran voce la parola di Gesù e divulgarla a costo della vita. In questa dialettica, il silenzio segue la parola, per poi tornare di nuovo alla parola, però stavolta potenziata poiché fatta di sintesi, e in grado di essere diffusa davvero a tutti con san Francesco. Nelle città, dove alcune donne si appartano per vivere in preghiera; nei deserti, nelle isole e lungo le coste, ma anche sulle cime dei monti e nei boschi, a partire dal IV secolo i monaci abitano il mondo inabitato. E’ come se volessero farsi missionari del Vangelo attraverso la natura e la presa in carico di luoghi eremitici, dove di certo la Parola non sarebbe potuta altrimenti giungere. E’ la missionarietà dei luoghi più sperduti e lontani dalla vita frenetica. Ma è anche il silenzio ricercato dentro le città stesse: è la preghiera che si fa missione, è il Verbo che inizia ad abitare grotte e boschi, spelli e celle. Le regole più antiche vengono scritte in Oriente da Pacomio e da Basilio.

San Benedetto da Norcia in un’opera di Andrea Mantegna

Don Giorgio Picasso, monaco benedettino e grande intellettuale della fede, morto due anni fa, ci racconta attraverso i suoi scritti sul monachesimo, che la più diffusa delle Regole, anonima, fu scritta all’inizio del secolo VI e fu detta Regola del Maestro. Benedetto da Norcia, vissuto tra il 480 e il 547, si inserisce in questo vasto movimento: prima condusse vita eremitica in una grotta di Subiaco poi, con i suoi discepoli, fondò 12 piccoli monasteri, infine intorno al 529 si recò a Montecassino dove fondò un unico grande monastero. «San Benedetto è molto discreto – scrive don Giorgio Picasso -: prefigurava il suo monastero come una “officina spirituale”, una scuola a servizio del Signore, una famiglia di fratelli attorno a un padre. Il monastero è aperto a tutti, senza distinzioni di cultura o di condizione sociale; vi è posto per i chierici e per i laici. Una sola condizione: che si cerchi veramente il Signore». Addirittura Carlo Magno, quando fondò il Sacro Romano Impero, volle unificare anche le osservanze monastiche e suo figlio, l’imperatore Ludovico il Pio, con l’aiuto di un abate riformatore, Benedetto d’Aniene, fece adottare nell’816 da una assemblea di abati la Regola di san Benedetto come unica regola monastica, valida per tutto l’impero carolingio.

Quanta missionarietà può esservi nella Regola di san Benedetto che coglie appieno lo spirito del tempo e si inserisce meravigliosamente nella storia del Medioevo, che altrimenti sarebbe stato troppo lontano dal Vangelo?

Anche l’eremitismo è missionario: riprende vigore attraverso l’opera di alcuni grandi santi, da Romualdo di Camaldoli (1027), a Pier Damiani di Fonte Avellana (1043), a Bruno di Colonia nella Grande Chartreuse presso Grenoble (1084).

Tutti si richiamarono alla povertà e alla solitudine, però condivisa con i fratelli. E’ ancora don Giorgio Picasso che ci racconta come «ai preti che volevano esercitare la cura animarum, cioè l’attività pastorale, e sconfiggere i pesanti abusi cui questa era soggetta, Norberto di Xanten, fondatore della canonica regolare di Premontré (1120), offrì il sostegno della vita comune, costituendo l’ordine dei canonici regolari». E arriviamo dunque a san Francesco d’Assisi, certamente il più missionario dei frati. Il francescano Tomasz Tegowski ci racconta che «il poverello di Assisi nella sua spiritualità è stato ispirato dal desiderio dell’apostolato degli infedeli, ma non ha mai usato i termini “missione” e “missionario”. Per vederne l’emergere dobbiamo aspettare il XVI secolo». Ad ogni modo, san Francesco, nonostante la tendenza a vivere una vita nascosta, decise di diventare un missionario: «A lui non bastava – dice Tegowski – proclamare il messaggio che lega l’intera esistenza al mistero della salvezza e partecipare alla missione di Cristo». Lui andò decisamente oltre. Diremmo che andò anche oltre i tanti monaci delle epoche precedenti. Ecco perché il suo messaggio è ancora oggi così forte e attuale. Il servizio missionario è percepito «attraverso il prisma della vita impregnata di Vangelo per le minoranze e attraverso la povertà». San Francesco era pieno di gioia spirituale e di desiderio di contemplare il Cristo incarnato e crocifisso. Sapeva bene che «Dio ci ha chiamati non solo per la nostra salvezza, ma per la salvezza di molti – racconta Tegowski -: siamo andati in tutto il mondo per favorire la vita, più con l’esempio che con le parole».

San Francesco d’Assisi e il sultano al-Kamil, affresco di Benozzo Gozzoli

D’altra parte, l’esempio forse più bello di missionarietà francescana è racchiuso nella capacità di dialogare con i musulmani dell’epoca. «Andarono pacificamente tra gli infedeli – racconta lo storico Franco Cardini in un articolo dal titolo “Francesco e il Sultano, i francescani in Oriente” – inaugurarono una forte tradizione missionaria e in Terra Santa, riuniti nella loro “Custodia”, ospitarono e assisterono i poveri e i pellegrini mentre facevano opere di bene anche dirette ai musulmani». Un esempio che arriva fino a noi e che ci indica la strada da seguire oggi, peraltro già intrapresa da papa Francesco nel suo dialogo col mondo arabo.

Infine, una nota importante su quanto dicevamo: la missione dei frati e dei monaci è anche una missione del Creato. «Frate Francesco viveva in un mondo nel quale l’uomo, esattamente come oggi, si sentiva il padrone assoluto del pianeta – dice ancora Cardini – e una lettura errata della Bibbia sembrava dargli ragione (è la lettura che la Laudato Si’ corregge: l’uomo non è padrone assoluto bensì custode, guardiano della natura). Ai tempi di Francesco bisognava lavorare per difendersi dal Creato; oggi invece la natura va aiutata e tutelata. Frate Francesco, come dimostrarono meravigliosamente Henry Thode e Giovanni Gentile, è alla base della sensibilità per il mondo circostante: dopo di lui, il mondo occidentale tornò all’ammirazione per il Creato che del resto già esisteva nella cultura antica».