Si possono trarre almeno un paio di lezioni dall’epidemia causata dal coronavirus finora non conosciuto, partita dalla città di Wuhan, nella provincia centrale cinese dello Hubei, e che ha raggiunto in maniera più che contenuta anche altri Paesi asiatici, americani ed europei.

La prima è che non esistono strumenti sanitari, salvo il ricorso a normali pratiche igieniche e a iniziative prudenziali pubbliche, per contrastare questo tipo di virus, come accade per esempio con i vaccini antinfluenzali. Il che fa riflettere sulla necessità di affidare la ricerca medica più alle strutture pubbliche, cioè determinate dall’interesse generale, che a quelle private, per loro natura orientate al guadagno.

Non è un caso se a “tracciare” il virus e a dare la prospettiva di una soluzione terapeutica in tempi relativamente brevi, siano stati i ricercatori – anzi le ricercatrici, tre donne – di una struttura pubblica italiana, l’Ospedale Spallanzani di Roma, che ancora resiste al massacro praticato da decenni nel Servizio Sanitario nazionale.

Di coronavirus (CoV), così chiamati per le punte a forma di corona sulla loro superficie, se ne sono scoperti finora sette: i primi quattro, che non ebbero gravi conseguenze, già negli anni Settanta del secolo scorso.

Il primo episodio rilevante, incominciato anch’esso in Cina nel 2002, fu causato dal quinto ceppo, quello della Sars (Severe acute respiratory syndrome), che in alcuni mesi ebbe a livello mondiale circa ottomila casi, con 774 morti, compreso il medico italiano Carlo Urbani, il primo a identificare il virus che lo uccise.

Più letale, in percentuale, fu dieci anni dopo quello della Mers (Middle East respiratory syndrome) che colpì la penisola arabica e che nel suo primo impatto e in una recrudescenza nel 2015 uccise 624 persone su 1.616 casi accertati.

Foto: Hector Retamail/ Afp

Quello attuale è appunto il settimo ceppo, per ora contrassegnato solo con la sigla 2019-nCoV.

L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ne ha presto corretto la valutazione da “rischio lieve” a “rischio elevato”, dichiarando poi lo stato di “allerta globale”.

Il che non significa fine del mondo in arrivo imminente, ma necessità di vigilanza sul pericolo di contagio in altri Paesi.

Pericolo ovviamente da non sottovalutare, ovunque e soprattutto in quelli asiatici e africani, con fitti interscambi con la Cina e meno efficaci protocolli sanitari rispetto a Europa e Nord America.

Anche perché ci sono stati ritardi, ammessi dalle autorità locali, nell’adozione dell’unica forma di contenimento efficace, cioè la quarantena a Wuhan, una città di 11 milioni di abitanti.

Di contro, è stato probabilmente frettoloso, secondo l’Oms, l’annuncio cinese che due farmaci già esistenti sarebbero efficaci contro il virus.

Ciò detto, bisogna ricordare che le conseguenze del virus, sembrerebbero meno  gravi di quelle della Mers e della Sars, con circa 3.200 decessi su oltre 90mila contagi accertati.

E questo ci riporta alla seconda lezione da imparare. Cioè che oggi la disinformazione si diffonde ben più dei virus, soprattutto con le cosiddette fake news sui social media, secondo quello “stile” che ha fatto di internet uno strumento di menzogna più o meno quanto lo è di conoscenza.

Le epidemie di questo secolo, almeno per quanto riguarda i coronavirus, sono ben diverse, grazie a protocolli sanitari decisamente migliori, da quelle influenzali terrificanti del Novecento.

L’influenza del 1918, chiamata Spagnola per la virulenza con cui in Spagna esplose, anche se era stata identificata per la prima volta in Kansas, colpì mezzo miliardo di persone, uccidendone almeno 25 milioni, cioè il 3% dell’allora popolazione mondiale (anche se alcune stime parlano addirittura di 50-100 milioni di morti).

Nel 1957 fu la volta dell’influenza Asiatica, incominciata in Cina, che uccise due milioni di persone, prima che fosse individuata la terapia che frenò e poi debellò la pandemia, dichiarata conclusa nel 1960.

Foto: Koki Kataoka / Yomiuri / The Yomiuri Shimbun

Ma queste considerazioni purtroppo non impediscono oggi di varcare con estrema e pericolosa facilità il confine tra allerta e allarmismo, tra vigilanza e isterismo.

E non solo in questo caso. Per fare uno dei tanti esempi, l’influenza detta suina (impropriamente) provocò nel 2009 uno spropositato terrore, soprattutto in Italia, dove si parlò di un milione e mezzo di casi, prima che rivelasse un tasso di mortalità molto più basso di quello di una normale influenza stagionale.

Nell’epoca di internet, aggiungere tre zeri ai numeri reali è solo il minore dei crimini – perché il procurato allarme è un reato – di quei costruttori di paura che proliferano (e purtroppo non solo generici utenti del web, ma persino giornalisti che hanno perso l’abitudine deontologica di verificare le notizie prima di darle, per non parlare degli esponenti politici e istituzionali, del tipo dei presidenti di tre regioni e di una provincia che hanno avanzato la proposta di negare l’ingresso a scuola ai bambini cinesi).

Si va dalle teorie complottiste sul virus creato a scopo militare in laboratorio – statunitense o cinese a seconda delle simpatie di chi le propaga – all’attribuire il blocco di arrivi e partenze in Cina, un’opportuna misura precauzionale in attesa che il contagio sia contenuto, ad un complotto per colpire questo o quel Paese, questo o quell’interesse commerciale.

Fiumi d’inchiostro – anzi di clic di tastiere – e ore di programmi radiofonici e televisivi insieme a notizie reali, tipo andamento delle borse o conseguenze sui consumi e sul commercio, danno spazio a dicerie, opinioni e posizioni che appartengono non al diritto/dovere di cronaca, ma a un sensazionalismo pericoloso.

Accade un po’ in tutto il mondo, con episodi eclatanti quanto grotteschi. Ma siamo ben oltre il grottesco: la mai morta, stupida e feroce caccia all’untore di manzoniana memoria si veste oggi sempre più di razzismo, di odio per il diverso.

E alimenta, per ignoranza o per scopi inconfessabili, una discriminazione vergognosa verso chi è originario delle terre in cui il virus si è manifestato.

Lo mostra il precipitare delle presenze negli esercizi commerciali gestiti da cinesi. Ma non è solo di danni materiali che occorre parlare. Si pensi alle chat su whatsapp che usano i genitori dei bambini di una stessa classe e che in diverse località si sono subito riempite di notizie senza fondamento e di inviti a segregare i cinesi da considerare nemici. Sì, ci sono epidemie sociali ben peggiori di quelle sanitarie, quando si dimentica che per i malati deve esserci cura e per i morti pietà, non l’azzannare degli sciacalli.

Questo articolo è stato pubblicato nel numero di marzo di Popolo e Missione.