Un prete speciale che viveva secondo la legge del Vangelo ed era sempre a disposizione del popolo di Dio. A 25 anni dalla sua morte, chi lo ha conosciuto racconta l’amicizia con don Tonino Bello nella sua Molfetta, e nella semplice pienezza di ogni suo gesto.

Sin dal primo incontro con don Tonino nel palazzo vescovile di Molfetta, una mattina di sole del lontano settembre 1988, ebbi la netta sensazione di trovarmi davanti a qualcuno che mi stava ascoltando sul serio, interessato a ciò che gli dicevo, sebbene fosse la prima volta che ci incontravamo.

Percepivo un’attenzione non di circostanza legata al suo ruolo o alla sua fama, già allora di rilievo.

Così pure notai i suoi simboli episcopali: il crocifisso pettorale in legno d’ulivo legato ad una semplice corda gialla e l’anello nuziale di sua mamma leggermente modificato. Uno stile essenziale, coltivato ben prima della sua nomina a vescovo di Molfetta il 30 ottobre 1982, pressoché inedito nel panorama ecclesiastico italiano di quegli anni, e non solo.

La scelta di questi umili segni, con la loro potenza evocativa, aveva fatto breccia nei cuori di molti cosiddetti “lontani”, come nel caso dell’allora presidente della Repubblica, Sandro Pertini. Il presidente, ricevendo quello strano vescovo al Quirinale, rimase così colpito dal suo crocifisso pettorale che a un certo punto del colloquio, don Tonino glielo lasciò in dono.

Un modo singolarissimo di intendere il Vangelo, appreso sin dal tempo vissuto in famiglia e tra la sua gente, gli umili contadini del Salento agricolo e mistico di una volta.

Da questa profonda condivisione quotidiana con la gente del popolo, intessuta di preghiera e contemplazione, diventato uomo di Chiesa aveva sentito la necessità di operare una frattura con quella simbologia del potere ecclesiastico che si tramandava da secoli e secoli, fatta anche di merletti, porpore, oro e gioielli, di titoli come “eminenza reverendissima”, “monsignore” ed “eccellenza” e relativi inchini e baciamano, che lui sentiva di non poter adottare per sé. E questo non per una specie di nuova “estetica clericale” esteriore e fine a se stessa, ma perché la percepiva lontana dal pensiero di Gesù.

Nel salutarlo quella mattina di settembre gli dissi: «Buon giorno, eccellenza», che lui corresse in: «Semplicemente don Tonino» Ero andato a chiedergli se poteva ospitarmi per qualche tempo, essendo allora io un “giovane in discernimento vocazionale”, visto che ero in ricerca della mia strada.

E lui, senza troppe parole, mi disse che sarei stato il benvenuto e che potevo trasferirmi nel palazzo vescovile quando volevo. Finito il colloquio prese giacca e agenda e scendemmo le scale del palazzo, continuando a scambiare qualche battuta.

Usciti dal portone, ci avviammo verso alcune auto parcheggiate davanti al molo del porto di Molfetta e mi chiese se potevo dare una spinta alla sua auto, una vecchia Fiat Ritmo blu, che da sola non si avviava. Meravigliato della richiesta, gli risposi subito di sì.

Ci salutammo con un “arrivederci a presto”: si sedette al posto di guida, io iniziai a spingere l’auto, che riuscì a partire solo dopo diversi scoppiettii. Una volta che la Ritmo scomparve lungo il molo del porto vari interrogativi si affollarono nella mia mente: dove aveva studiato?

Chi aveva curato la sua formazione sacerdotale? Certo, avevo già letto alcune delle sue “Lettere alla città”, ma sin da quei primi momenti don Tonino mi sembrò un alieno, anzi di più: un uomo libero da schemi e da etichette, un uomo conquistato da Gesù Cristo.

Nei due mesi in cui rimasi suo ospite spesso era fuori, in giro per la diocesi o nei più diversi posti d’Italia in qualità di presidente nazionale di Pax Christi.

Partiva e tornava, spesso in treno, negli orari più disparati del giorno e della notte, in un continuo susseguirsi di impegni che lo attendevano ben al di là della sua pur non piccola diocesi. Ma quando era a casa veniva a pranzo con noi, suoi ospiti residenti nell’episcopio: alcuni ragazzi seminaristi, i due sacerdoti loro formatori ed io. Mangiavamo ad un unico tavolo con lui al centro.

L’occasione del pasto era sempre un bel momento di condivisione in cui don Tonino scambiava con noi esperienze e riflessioni, ci informava di iniziative a cui aveva partecipato o doveva partecipare, oppure si ispirava alle nostre chiacchierate per qualche suo discorso o scritto.

Ma non mancavano momenti in cui don Tonino manifestava grande amarezza su fatti incresciosi, specie se provocati da persone di Chiesa. Un giorno mi guardò con quel suo volto espressivo e si lasciò andare ad espressioni dialettali salentine, visto che eravamo conterranei.

Veniva criticato da politici per il suo pacifismo, ad esempio contrario all’espansione militare americana in Puglia; ma anche da uomini di Chiesa perché non accettava facili tornaconti e difese corporativiste, come quando fu “rimproverato” da alcuni alti papaveri perché si era permesso di rinunciare ad una cospicua eredità donata alla diocesi, in quanto i familiari del defunto avevano intenzione di fare causa alla curia. E lui, memore delle parole di Gesù, aveva rinunciato in favore dei parenti del donatore, perché convinto che la diocesi non poteva e non doveva fronteggiare una guerra legale per accaparrarsi l’eredità, seppure legittimamente donata. Suo parametro di confronto e giudizio era sempre il Vangelo, non seguiva altre logiche, fossero pure “a fin di bene”.

A fine pranzo dal refettorio raggiungevamo tutti insieme il lungo corridoio che costeggiava un atrio interno. Era l’occasione per i seminaristi di coinvolgere il vescovo in qualche tiro al pallone, e lui acconsentiva volentieri e con allegria, e con agilità ed eleganza si smarcava correndo, o facendo palleggi su un piede.

Il pomeriggio i seminaristi lo dedicavano allo studio in una sala comune, dove ciascuno aveva un suo tavolo, e quando don Tonino era in casa passava a salutarli soffermandosi presso ciascuno per qualche momento, e a voce bassa per non disturbare gli altri si informava su come procedessero gli studi. Era sempre molto rispettoso dei percorsi esistenziali di quei ragazzi, mai forzature nel “convincerli” della vocazione sacerdotale.

I miei due mesi a Molfetta giunsero presto al termine, e un giorno di novembre mi recai nell’ufficio di don Tonino per ringraziarlo dell’ospitalità. L’ufficio era preceduto da alcune stanze, tutte piene di gente in attesa di parlare col vescovo. Non vi era nessuno che facesse da “filtro”: chi apriva la porta o rispondeva al citofono o al telefono era sempre don Tonino. C’erano nomadi, disoccupati, persone visibilmente sofferenti per qualcosa, anziani, tutta gente “del popolo”.

Don Tonino andava e veniva da una stanza all’altra, con passo veloce e con delle carte in mano, rispondeva personalmente alle loro richieste, o al telefono che squillava con frequenza. Non si avvaleva, almeno in quel periodo, della collaborazione di un prete come segretario perché gli sembrava di sprecarlo nel tenerlo presso di lui, preferiva impiegarlo nelle necessità della diocesi.

Quando fu finalmente il mio turno ci salutammo, lo ringraziai e lui ringraziò me: «Ma di cosa mi ringrazia don Tonino?» gli chiesi. «Di essere stato mio ospite» mi rispose. Avrei voluto attardarmi ancora a parlargli, ma tutta quella gente che aspettava e il telefono che squillava lo impedirono. Quella fu l’ultima volta che ci vedemmo, anche se lui mi disse che potevo tornare quando volevo.