La Repubblica Centrafricana poggia su un fragilissimo equilibrio politico interno, che pare essersi già incrinato. Appena nominato, il nuovo governo del primo ministro Firmin Ngrébada è già in difficoltà. Alcuni dei 14 gruppi armati (da anni in lotta fra di loro), che avevano firmato l’accordo di ‘pace’ reciproco con le autorità, a febbraio scorso, hanno lamentato una scarsa rappresentatività nelle fila del nuovo esecutivo, tanto che è stato necessario aggiustare il tiro.

Sono quattro i gruppi ribelli che hanno ritirato i loro rappresentanti e che hanno chiesto un ‘rimpasto’ di governo.

Il pomo della discordia sono naturalmente ministeri di peso che tutti vorrebbero ricoprire: quello della Difesa e dell’Interno, delle Miniere e dell’Economia.

Il più battagliero, e il meno disposto a cedere potere, è il Front démocratique pour le peuple de Centrafrique (FDPC) , che infatti è stato recuperato a posteriori.

Questo è il secondo governo che viene formato in  poco più di un mese ed è molto numeroso, proprio per dare opportunità a tutti di farne parte: sono 39 i membri del governo, contro i 36 del precedente.

Comprendere la geopolitica del Centrafrica è questione complessa ma non impossibile.

La Francia, ex madrepatria, intervenuta militarmente nel Paese tra il 2014 e il 2016 nel quadro dell’operazione denominata “Sangaris”, oggi si tiene il più possibile alla larga dalla gestione di un conflitto che definisce “a bassa intensità”, schierandosi «al fianco della popolazione centrafricana», senza però davvero aiutarla a resistere. 

Parigi dice di «fare affidamento sulla capacità delle Nazioni Unite e delle autorità locali per ristabilire l’ordine». Sul versante del commercio e del business, però, non fa passi indietro, anzi.

E’ ben presente a succhiare risorse. Aziende francesi come Air France, Bolloré (logistica e trasporti), Castel (industria di bevande e zucchero) e Total, per lo stoccaggio e distribuzione di prodotti petroliferi sono ancora ancorate alla Repubblica Centrafricana.

La gendarmeria del contingente Onu presente in Centrafrica, dentro la missione chiamata Minusca, avrebbe il compito di disarmare i gruppi in conflitto, ma questo obiettivo negli ultimi anni è sostanzialmente fallito.

Nella primavera del 2018 il tentativo di disarmare i Seleka di matrice islamica (ma in precedenza anche gli anti-balaka, che si dicono cristiani), ha anzi scatenato l’ennesima rappresaglia contro le chiese cristiane e i nostri missionari che, nonostante tutto, rimangono nella zona di enclave come testimoni di un conflitto sanguinario.

  L’intervento a posteriori dei Caschi blu è ormai un clichè: lo hanno denunciato spesso anche i nostri missionari.

La popolazione non si sente al sicuro sotto protezione Onu, la fiducia è scesa ai minimi storici.

«Molti di questi giovani del contingente Onu che dovrebbero proteggere la popolazione, poiché ancora non è stato rimesso in sesto l’ esercito, non lo fanno, sono dei mercenari», ci spiegava suor Elvira che opera a Berberati e che parla di soldati Onu spesso reclutati nei Paesi limitrofi, Repubblica Democratica del Congo e Rwanda, con pochissima esperienza professionale.

«Non c’è coordinamento tra questi soldati Onu e il nascente esercito o le forze dell’ordine locali: c’è incompetenza, non è mai chiaro chi debba fare cosa, chi debba intervenire», conferma padre Federico Trinchero, missionario carmelitano.

Dal punto di vista politico e religioso sono pochissime le voci profetiche rimaste davvero accanto alla gente della Repubblica Centrafricana.

Una di queste è del cardinale Dieudonné Nzapalainga che incessantemente pronuncia parole forti e coraggiose. Nella chiesa della mattanza il porporato è andato a dire messa un paio di settimane dopo il dramma. Nzapalainga è un cardinale giovane: nasce nel 1967 a Bangassou, diventa membro della Congregazione dello Spirito Santo, Istituto nel quale professa i voti perpetui il 6 settembre 1997  viene ordinato sacerdote il 9 agosto 1998.

Papa Benedetto XVI lo nomina arcivescovo il 14 maggio del 2012, diventa cardinale il 9 ottobre del 2016 per volontà di papa Francesco ed è il primo porporato centrafricano.

Ha sempre cercato di conciliare le diverse fedi. In un discorso di due anni fa disse: «con i musulmani abbiamo cantato l’inno nazionale per mostrare all’umanità che siamo tutti centrafricani: cattolici, protestanti, musulmani, animisti. E’ arrivato il tempo di amarci».

Padre Trinchero dice che «non ci sono altre voci autorevoli oltre a questa: il presidente è debole, sotto tutela, poco assertivo. La Chiesa cattolica sta salvando il Centrafrica».

«Ma la vera piaga del Cerntrafrica a mio avviso rimane il virus della vendetta e della ritorsione tra gruppi in antagonismo», spiega suor Elvira.

La religiosa vive e lavora nel capoluogo della Prefettura di Mambéré-Kadéï da anni, in una delle zone tutto sommato pacificate.

Un altro fenomeno aberrante è quello di intere famiglie che gravitano nei gruppi armati: «sono combattenti delle milizie, anche molto giovani, che si accoppiano con ragazzine e fanno figli. Alcuni di loro, non tutti, rimangono insieme e così nelle milizie aumenta il numero delle famiglie-soldato».

Ma dimentichiamoci della religione come leva di conflitto in questo contesto Centrafricano: non è con l’etichetta di guerra tra cristiani e musulmani che si può liquidare il conflitto.

«Dio non ama il male. Il nostro è un Dio buono», insiste il cardinale.

Il presidente Touadéra ha denunciato «la strumentalizzazione della religione», che in realtà, dice lui, serve a nutrire ambizioni di tipo politico. «Questo conflitto non è confessionale», assicura. E sono in tanti a pensarla così.

«Lo scontro è voluto da un gruppo determinato, con un disegno chiaro e stabilito, però non si può negare che ci siano spesso episodi da una parte e dell’altra», dice ancora Trinchero.

Le violenze nel Paese sono iniziate nel 2012, quando una coalizione di gruppi ribelli a maggioranza musulmana chiamati Séléka – che nella locale lingua sango significa “alleanza” – diedero vita a una rivolta e tre mesi più tardi presero il potere con un colpo di Stato.

A quel punto entrarono in gioco le milizie anti-balaka, composte da uomini armati e miliziani che si definivano cristiani e che stavolta hanno preso di mira la popolazione di religione musulmana.

«Attenzione a non cadere nell’errore di dare una connotazione religiosa al conflitto – spiega il giornalista Maurizio Di Schino che è stato molte volte in Centrafrica per i suoi reportageL’interreligiosità qui non è mai stata messa in dubbio: i Seleka e gli Anti-balaka sono miliziani, guai a definirli in base alla religione. Chi si macchia di sangue non può essere mai definito cristiano o musulmano».