La parola chiave è lavoro. O per meglio dire, la sua assenza. Dall’Italia giovani e meno giovani scappano per necessità e per la gran parte di essi non c’è quasi ritorno. Manca la cosiddetta “partenza circolare”, ossia la possibilità di far marcia indietro.

Lo dice il Rapporto Italiani nel Mondo 2018, appena pubblicato dalla fondazione Migrantes.

Da gennaio a dicembre 2017 sono partiti 243mila italiani ed hanno raggiunto 193 località, il 70% in Europa. La meta preferita resta la Germania (dove vivono 20mila italiani), seguono Gran Bretagna e Francia. Ma la vera sorpresa non riguarda i più giovani – il cui trend di cervelli in fuga è oramai da anni una realtà in crescita – quanto gli over 60 e 70.

I nostri media e il dibattito pubblico si «occupano troppo degli arrivi e poco delle partenze», ha fatto notare monsignor Guerino Di Tora, presidente della fondazione Migrantes. Intendendo per arrivi quelli dei migranti che approdano in Italia. E per partenze, le nostre.

«La guerra tra poveri sta causando diffuse folle rabbiose, ripetuti episodi di violenza e razzismo – ha fatto notare – numeri sempre più ampli di cittadini disillusi e stanchi e crescita inesorabile di partenze».

Ed è sul perché di queste partenze che l’intero volume della Migrantes– 536 pagine a cura di 64 autori – si concentra.

«Ancora una volta – si legge – la migrazione italiana ci sorprende. A partire dall’Italia sono sicuramente i giovani (37,4% sul totale partenze per espatrio da gennaio a dicembre 2017) e i giovani adulti (25,0%), ma le crescite più importanti le si notano dai cinquant’anni in su (+20,7% nella classe 50-64 anni».

E addirittura un + 49,8% nella classe 75-84 anni e 78,6% per gli ultra ottantenni. Altri paesi verso i quali gli italiani emigrano più frequentemente sono il Brasile (4,2%), il Belgio (2,3%), l’Australia (2,1%) e l’Austria (1,6%).

Tra le prime 15 destinazioni, nel 2016 erano presenti gli Emirati Arabi Uniti, paese emergente negli anni più recenti e che propone una situazione fiscale agevolata.

Ma perché partire? E’ solo la privazione materiale a spingerci fuori dalle nostre frontiere?

«Chi parte oggi va alla conquista di qualcosa di più complesso, che può anche mutare improvvisamente – si legge nel rapporto -Lo si comprende vivendo l’esperienza stessa della mobilità, arricchendosi di pezzi di un puzzle che possono cambiare l’immagine finale ogni giorno.

Se va male si può sempre ripartire per qualche altra parte. Come ci racconta Irene: «è il bisogno di partire che prevale, di staccare con quanto fatto fin qui. Anche se in Italia ci fosse lavoro, tutto andasse bene, io partirei lo stesso”».

Un capitolo del rapporto è poi dedicato anche alla pastorale per gli immigrati italiani all’estero. In un mondo globalizzato – si chiedono i ricercatori nel rapporto – ha ancora senso oggi parlare di Missioni Cattoliche Italiane all’estero? Evidentemente sì.

Esiste una lunga tradizione che ha come protagonisti sacerdoti italiani e di lingua italiana, ma anche religiosi e laici che nel corso degli anni, per il bene dei nostri connazionali, con impegno e generosità, hanno camminato al loro fianco.

Per le nuove categorie di italiani che emigrano torna ad essere importante l’accompagnamento dei nostri sacerdoti nelle Missioni Cattoliche Italiane: soprattutto in Svizzera, Belgio, Germania e Scandinavia.

Anche per i funzionari dell’Unione europea espatriati in Belgio ad esempio, la presenza di un sacerdote italiano e di una pastorale per la famiglia, acquista un nuovo significato e diventa una opportunità di crescita.