Ieri, durante la recita della tradizionale preghiera dell’Angelus in piazza San Pietro, papa Francesco ha ricordato che oggi 6 Agosto, ricorrono i quarant’anni dalla scomparsa del beato papa Paolo VI. “Lo ricordiamo con tanta venerazione e gratitudine – ha detto papa Bergoglio – in attesa della sua canonizzazione, il 14 ottobre prossimo”.

Quando venne eletto successore di Pietro, il 21 giugno 1963, il cardinale Giovanni Battista Montini, rivelando una spiccata nobiltà del cuore, ebbe a dire con grande umiltà e pacatezza: “Forse il Signore mi ha chiamato a questo servizio non già perché io vi abbia qualche attitudine, ma perché io soffra qualche cosa per la Chiesa”. La sua indubbia perspicacia, unitamente al profondo zelo per il ministero che gli era stato affidato dal Conclave, gli fecero intuire, sin dal primo momento, il lato più greve di una missione che avrebbe messo a dura prova il suo animo pacato e cortese ed anche il suo gracile fisico. Per alcuni eccessivamente progressista, per altri, all’estremo troppo conservatore, Paolo VI è stato il pontefice che avvertì l’urgenza di rivolgersi al mondo dal pulpito dell’Assemblea generale dell’Onu, il 4 ottobre 1965, per parlare a favore della pace universale e della solidarietà tra i popoli.

Nato a Concesio, in provincia di Brescia, il 26 settembre 1897, Paolo VI fu il timoniere del Concilio Vaticano II dopo che il suo predecessore, Giovanni XXIII, aveva indirizzato la riflessione conciliare verso il mare aperto. Fu il papa del dialogo perché, come scrisse nella sua enciclica programmatica, Ecclesiam suam, “la Chiesa deve venire a dialogare con il mondo in cui si trova a vivere” e perché “nessuno è estraneo al cuore della Chiesa; nessuno è indifferente al suo ministero; nessuno le è nemico, che non voglia esso stesso esserlo”. Un dialogo appreso alla scuola del Vangelo, di grandi pensatori del calibro di Pascal, e dell’amico padre Giulio Bevilacqua. Una sensibilità, la sua, dilatata dalla ferma convinzione di rispondere all’impellente bisogno di giustizia planetaria, condizione essenziale – così si affermò in un’altra sua grande enciclica, la Populorum Progressio – di sviluppo e di pace tra gli uomini. Profonda e senza precedenti la sua azione ecumenica, con proficui scambi e incontri con la Chiesa anglicana e la Chiesa ortodossa: storico, a questo proposito, il suo incontro con il patriarca di Costantinopoli, Athenagoras. Inaugurò, peraltro, l’era dei grandi viaggi apostolici recandosi, nel 1964, a Gerusalemme, e in seguito in molte altre parti del mondo, dalla Colombia alle Filippine. Oltre all’Ecclesiam suam e alla Populorum progressio, scrisse numerose encicliche ed esortazioni apostoliche, dall’Evangelii nuntiandi, all’Humanae vitae, dalla Communio et progressio, alla Marialis cultus, dal Gaudete in Domino alla Mysterium Fidei, per non parlare dell’Octogesima Adveniens.

Non v’è dubbio, però, che papa Montini fu innanzitutto e soprattutto un papa missionario. Innanzitutto seppe cogliere le contraddizioni della storia contemporanea indicando l’unicità di un “tempo senza precedenti”, come ebbe a scrivere in occasione della tradizionale missiva per la Giornata Missionaria Mondiale del 1971. Un tempo in cui “ai vertici di progresso mai prima raggiunti, si associano abissi di perplessità e di disperazione anch’essi senza precedenti”, precisando che “se mai ci fu un tempo in cui i cristiani, più che mai in passato, sono chiamati ad essere luce che illumina il mondo, città situata su un monte, sale che dà sapore alla vita degli uomini, questo, indubbiamente, è il nostro tempo”. Tutti, ma davvero tutti, secondo il magistero di Paolo VI dovevano avere l’ardire, il coraggio e la temerarietà di partecipare all’azione evangelizzatrice. Non a caso, nel corso del suo viaggio in Uganda nell’estate del 1969, rivolse uno storico messaggio alla Chiesa africana che “ha davanti a sé un compito originale ed immenso: essa deve rivolgersi come una “madre e maestra” a tutti i figli di questa terra del sole… essa deve aiutare l’Africa allo sviluppo, alla concordia e alla pace”.

L’ultimo periodo della sua vita fu rattristato profondamente, nella primavera del 1978, dal rapimento e poi dall’uccisione del suo amico fraterno, lo statista Aldo Moro. “Il nostro ufficio è quello stesso di Pietro, al quale Cristo ha affidato il mandato di confermare i fratelli” ribadì nella sua ultima celebrazione pubblica, il 29 giugno 1978, festa dei santi Pietro e Paolo, con lo sguardo ancora stravolto per l’efferato crimine perpetrato dalle Brigate Rosse. A Paolo VI mancavano davvero poche settimane di vita. Nell’omelia, l’anziano pontefice riabbracciò con lo sguardo tutto il tempo “durante il quale il Signore ci ha affidato la sua Chiesa”, mentre “il corso naturale della nostra vita volge al tramonto”. Anche in quel rendiconto della sua vicenda di vescovo di Roma, tracciato da quella soglia vertiginosa, egli volle indicare come “atto importante” del suo pontificato la professione di fede che dieci anni prima, il 30 giugno 1968, aveva pronunciato solennemente “in nome e a impegno di tutta la Chiesa” come “Credo del popolo di Dio”. Una professione di fede che aveva voluto riproporre come un “ritorno alle sorgenti”, in un momento in cui “facili sperimentalismi dottrinali sembravano scuotere la certezza di tanti sacerdoti e fedeli”. Uno dei gesti più efficaci del papato, in duemila anni di Storia, per ricordare che la missione della Chiesa è quella di un popolo in cammino.