Si chiamano segregazione, discriminazione, razzismo. Sono le radici dell’apartheid nel mondo, come Popoli e Missione del mese di aprile analizza nell’ampio dossier centrale. Si tratta di etnie senza diritti, di popoli sfruttati, costretti ad abbandonare le loro terre e ad essere esiliati dalla storia. L’apartheid cambia nome a seconda delle circostanze e delle latitudini, diventa un sistema più o meno ufficiale di norme ma la sostanza resta la stessa dal Sahara occidentale per il popolo Saharawi al Tibet espropriato della sua cultura dalla Cina; dai ghetti di Detroit negli Usa ai Ròm in Romania. Al centro delle diverse realtà la “matrice razziale” resiste nelle forme più acute di diseguaglianza, fino a farle considerare da molti quasi “naturali”, ma che viste dalla parte di chi soffre l’esclusione generano sofferenza e povertà, come raccontano gli occhi del bambino della foto di copertina, con lo sguardo corrucciato oltre le grate a cui si aggrappa.

Da segnalare in questo numero l’intervista esclusiva dall’America latina per i lettori di Popoli e Missione al leader del movimento indigenista Yaku Pérez, che si batte per i diritti degli Shuar che vivono da millenni nella Cordigliera del Condor nell’Amazzonia ecuadoriane. Yaku ha partecipato alle lezioni in Ecuador del febbraio scorso restando per un soffio escluso dal ballottaggio. Legato al partito Pachakutik, il leader spiega nell’intervista le linee guida del suo programma politico, molto legato al rispetto della Terra e dei diritti dei suoi antichi abitanti. Interessanti dichiarazioni sono contenute nell’intervista che don Renato Sacco, coordinatore nazionale di Pax Christi, ha rilasciato sul tema della revoca dell’export di armi verso Arabia Saudita ed Emirati Arabi decretata dal governo italiano a fine gennaio scorso: un passo concreto sul cammino della pace anche se il cammino da percorrere è ancora lungo. Un servizio sul “conflitto a bassa intensità” nella Repubblica Democratica del Congo entra nelle pieghe delle violenze compiute nel Paese africano da 122 gruppi di miliziani che infestano il territorio da oltre 20 anni, mentre nel Nord Kivu i massacri sono purtroppo all’ordine del giorno, come testimoniano i missionari presenti nella regione.

Da più di un anno a questa parte la pandemia rende tutto più difficile. Anche nei Paesi occidentali, anche in Italia dove il sistema dei media ha diffuso informazioni essenziali mentre nei social e in altre fonti della rete molte fake news hanno avuto modo di proliferare. L’occasione per parlare della “pandemia da mediavirus” da cui dobbiamo difenderci è un volume curato da Vania De Luca, giornalista di Rainews24 e la ricercatrice Marica Spalletta, in cui sono raccolti gli scritti di molte firme autorevoli del panorama informativo attuale. Un modo per fare un bilancio, mentre il mondo spera nei vaccini per abbattere la pandemia, sull’informazione come servizio alla comunità, organizzando un sistema di filtro per le news diffuse ad arte, spesso con finalità speculative.

I lunghi mesi che abbiamo vissuto attraversando paure, chiusure e dolorosi distanziamenti nelle relazioni interpersonali, devono averci insegnato qualcosa. Il tempo della riflessione deve aprire la porta alla speranza, in occasione – scrive il direttore Gianni Borsa nell’editoriale di apertura del numero – «Una Pasqua di resurrezione, che – nella storia dell’umanità – si traduca in pace, giustizia, sviluppo, tutela della vita, diritti umani. Non una Pasqua solo promessa o “consolatoria” ma un volto nuovo all’esistenza quotidiana di bambini, donne e uomini che oggi pagano il prezzo di vecchie e nuove “piaghe d’Egitto”. È lecito sperare in questa Pasqua?».

La risposta che condividiamo con i nostri lettori è «Si». Mai come quest’anno è importante vivere insieme la Pasqua di Resurrezione.