Protagonisti della grande stagione di rinnovamento della Chiesa incentrata sulle aperture del Concilio Vaticano II e sui documenti che ne scaturirono, papa Montini e l’arcivescovo di San Salvador si incontrarono più volte. In comune avevano innanzitutto la profonda spiritualità, la centralità della fede e l’amore per la Chiesa come ben espresso già dal motto vescovile di Romero «Sentire cum Iglesia».

Nel continente segnato da dittature militari e violazioni brutali nei confronti di grandi masse di poveri, le ingiustizie sociali gridavano contro gli abusi sulla pelle degli innocenti ed erano al centro della nascente Teologia della liberazione che tanto avrebbe influito sul pensiero religioso latinoamericano. Qualche rara foto resta la testimonianza di quegli incontri in Vaticano. Il resto è storia della Chiesa del nostro tempo.

Il papa del rinnovamento

Giovan Battista Montini impronta i 15 anni del suo papato (21 giugno 1963 – 6 agosto 1978) con la profonda spinta rinnovatrice del Concilio aperto dal predecessore Giovanni XXIII. Mette a punto una “rivoluzione copernicana” che va dalla riforma della Curia a quella della liturgia, dall’istituzione del Sinodo dei vescovi come organo di consultazione della Chiesa universale, ai viaggi missionari (è il primo papa a viaggiare in aereo) in Terra Santa e in India (1964), in Turchia (1967), in Colombia (1968), in Uganda (1969), nel Sud-est asiatico e in Oceania (1970). In un’epoca in cui la rivoluzione che sarebbe arrivata con la globalizzazione era impensabile, Paolo VI è il primo pontefice a rivolgersi alle istituzioni internazionali con il suo memorabile discorso alle Nazioni Unite a New York (1965) e all’Organizzazione Internazionale del Lavoro a Ginevra (1969). Riceve capi di Stato e apre orizzonti di dialogo con leader di varie religioni (il patriarca di Costantinopoli Athenagora nel 1964; l’arcivescovo di Canterbuy Michael Ramsey l’anno successivo; il Dalai Lama nel 1976), ha rapporti con intellettuali come Jean Guitton e Jacques Maritain, con uomini politici come John F. Kennedy, Alcide De Gasperi e Giorgio La Pira.

Flash di un pontificato straordinario incarnato da un uomo timido e austero nei gesti, che non ha mai avuto paura di confrontarsi con i segni dei tempi, gettando sempre ponti di dialogo. Perfino con gli «uomini delle Brigate Rosse» che nel marzo 1978 avevano rapito l’amico Aldo Moro e che ignorarono la dolente lettera a loro indirizzata, scritta il 18 aprile 1978, a pochi giorni di distanza dal ritrovamento del cadavere dello statista. Anche per Paolo VI stava per concludersi la stagione terrena: consumato da mesi di angoscia, muore di infarto a Castel Gandolfo il 6 agosto di quello stesso anno.

A 40 anni di distanza possiamo capire la profezia di questo straordinario papa che oggi si colloca nella Chiesa come un santo moderno che ha saputo andare oltre la contemporaneità, intuendo attraverso una raffinata sensibilità spirituale e intellettuale, i bagliori del cambiamento verso epoche nuove in cui la Chiesa sarebbe ancora e sempre stata protagonista dell’annuncio evangelico e della difesa della dignità umana, contro ogni offesa sociale, politica ed economica.

El santo de America

Romero era soprattutto un uomo fedele alla sua missione sacerdotale. Subito dopo la nomina di vescovo di Santiago de Maria, il 15 ottobre 1974, si reca a Roma per incontrare Paolo VI e comprendere gli orientamenti di quella “primavera post conciliare”. Nell’udienza del 23 novembre espone al papa che definiva «autentico avvocato dei popoli poveri», le sue perplessità circa alcune interpretazioni delle aperture del Concilio in America Latina. In quegli anni densi di eventi, Romero, considerato un tradizionalista attento alla spiritualità prima di ogni altra cosa, comincia a confrontarsi con le emergenze sociali e politiche del suo Paese alla luce dell’Evangelii Nuntiandi, dei documenti della Conferenza di Medellin (1968) e delle istanze di quella Iglesia popular che in quegli anni si stava facendo strada nella società, anche grazie ad un nuovo impegno dei laici nelle Comunità di base.

Nel febbraio 1977, monsignor Romero è nominato arcivescovo di San Salvador, mentre la situazione nel piccolo Paese diventa sempre più tesa. Nel marzo di quell’anno viene ucciso a colpi di fucile il gesuita padre Rutilio Grande, insieme a due dei contadini di cui era diventato il difensore. La perdita dell’amico e collaboratore è un grande dolore per Romero che, accanto al cadavere di padre Rutilio, insieme a centinaia di campesinos sente «la chiamata di Cristo a vincere la sua naturale timidezza umana e a riempirsi del coraggio dell’apostolo», come scrive monsignor Rivera Damas, testimone di quei giorni. A ridosso di questo evento, Romero torna a Roma per incontrare Paolo VI, che nell’udienza generale del 27 marzo lo riconosce e lo incoraggia dicendogli: «Coraggio, è lei che comanda». Dopo questo incontro, per i due grandi uomini di Chiesa inizia la fase più dura delle rispettive vite. Il rientro da Roma dell’arcivescovo salvadoregno coincide con una escalation di violenze contro contadini, sindacalisti e sacerdoti impegnati nella difesa dei diritti civili. Con grande fedeltà al magistero e ai valori civili, monsignor Romero si dimostra un leader coraggioso nella denuncia delle repressioni compiute dal potere politico ed economico sul popolo inerme.

La verità non ha paura

Le forze politiche lo contrastano, lo minacciano e diffamano, stringendo il cerchio intorno alla sua persona. Tanto che nell’ultima udienza da Paolo VI, il 24 giugno 1978, Romero sente il bisogno di lasciare al papa una nota in cui lamenta che «nelle osservazioni presentatemi qui in Roma sulla mia condotta pastorale prevale un’interpretazione negativa che coincide esattamente con le potentissime forze che là, nella mia arcidiocesi, cercano di screditare il mio sforzo apostolico».

Vittima di continue minacce e fedele al suo popolo, Romero non ha paura e continua ad essere voce di una Chiesa perseguitata nel nome della verità. Il giorno prima di essere ucciso, il 23 marzo 1980, il vescovo di San Salvador invita i militari a non usare le armi sul popolo inerme. E’ l’ultimo appello: il giorno dopo, celebrato oggi come Giornata dei Martiri Missionari, Oscar Romero viene ucciso sull’altare, durante la messa nella cappella di un ospedale. Le sue parole – «Un vescovo può morire ma la Chiesa di Dio, che è il popolo, non morirà mai» – sono la profezia che ancora risuona. E lui è ancora lì, sull’altare.