Il colpo di Stato militare in Mali, con la deposizione non violenta del presidente in carica Ibrahim Boubacar Keita (eletto in seguito al golpe del 2012), «era qualcosa di prevedibile e non ha sorpreso chi vive da tempo nel Sahel». Questo ‘golpe soft’ appare più come una «sconfitta per ciò che non si è riusciti a realizzare in questi otto anni» che come una liberazione.

Inoltre, l’instabilità maliana è riconducibile all’estrema fragilità di tutta la fascia del Sahel – dal Ciad al Burkina Faso al Niger – ostaggio di politiche interne repressive, e di forze militari internazionali, anzitutto Francia e Usa, con le loro missioni militari nel deserto. Questi sono Paesi avvezzi alle crisi di legittimità democratica.

A spiegarcelo in una lunga conversazione telefonica da Niamey (capitale ‘blindata’ del Niger, considerato oramai zona rossa e Paese altamente insicuro), è padre Mauro Armanino, missionario della Società delle Missioni Africane.

«Stavolta c’erano tutte le avvisaglie per capire cosa stava accadendo in Mali – spiega padre Mauro – La crisi economica profonda, la presenza di gruppi jihadisti, l’instabilità delle istituzioni, la corruzione, lasciavano intendere che la società civile e una parte dei militari (il Comitato Nazionale per la salvezza del popolo, il cui portavoce è Ismale Wague ndr.) erano davvero stanchi del presidente in carica. Basti pensare che in Mali, a parte la capitale Bamako, tutto il resto vive nella totale anarchia».

In questi ultimi mesi si era tentata più volte una mediazione da parte della CEDEAO (la Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale), guidata dall’ex presidente della Nigeria Goodluck Jonathan.

I mediatori avevano cercato di arginare le rivendicazioni del Movimento 5 giugno (M5-Rfp), determinato a chiedere le dimissioni del presidente Keita. Ma la richiesta incondizionata di legittimità democratica alla fine ha avuto la meglio. Il presidente e tutto il suo entourage sono stati deposti dai militari, senza spargimento di sangue.

Il Movimento 5 giugno aveva parlato di «violazioni gravi dei diritti e delle libertà», di «massacri perpetrati dalle forze antiterrorismo contro i manifestanti» e di incapacità del governo a «rimettere in piedi il Mali».

Adesso si apre una fase di attesa e di transizione, in vista delle elezioni democratiche che potrebbero però richiedere anche molto tempo.

Il Mali è parte di quella compagine di Paesi africani racchiusi nella fascia desertica del Sahel, dove i colpi di Stato si susseguono uno dietro l’altro (in Niger l’ultimo risale al 2010) e la militarizzazione dei confini è la normalità.

Padre Mauro dice che «nel Sahel l’epifenomeno più evidente è quello dell’assenza dello Stato (inteso come welfare, ossia sanità, scuola, governance ndr.), che ha contribuito alla presenza di numerosi gruppi armati», i quali a loro volta hanno richiamato l’attenzione del mondo occidentale (la Francia e gli Usa anzitutto), interessato prioritariamente a proteggere i propri confini.

Ma il risultato è che le popolazioni di Mali, Niger, Burkina, Costa D’Avorio e Ciad non vivono più una vita dignitosa, stretti come sono tra repressione interna, fragilità economica e militari stranieri che ‘occupano’ i loro stessi Paesi.

«Adesso c’è molta insofferenza nei confronti della Francia, sia in Niger che in Mali – spiega ancora Armanino – Le persone si considerano sotto occupazione militare e l’Europa ha spostato qui, nel Sahel, le proprie frontiere, militarizzandole e non consentendo più la libera circolazione delle persone».

Questo determina frustrazione, paura, desiderio di libertà.

«Ma non si possono affatto sottacere le altre dimensioni dell’instabilità saheliana – dice Armanino – ; ossia l‘interesse straniero per le materie prime (vedi l’uranio in Niger ndr.), il commercio di armi che in tutto il Sahel dilaga alimenta la guerriglia, e una crisi demografica che non si riesce più ad arginare».

Insomma, si tratta di una polveriera nel deserto, dove all’aumentare di povertà, disoccupazione, negazione di ogni diritto umano, si affiancano controllo internazionale e militarizzazione.

«In Niger stiamo vivendo una fase difficilissima, in attesa delle elezioni – spiega ancora il missionario – complicata anche dalla presenza di oltre 400mila rifugiati arrivati dal Mali, dalla Nigeria e da ultimo anche dalla Libia, poichè il Niger è considerato Paese sicuro per chi fugge dalla Libia. E’ un paese che non riesce a risollevarsi e la cui priorità rimane quella della lotta per la sopravvivenza. Il Niger si tiene in piedi solo per via degli aiuti internazionali, ma avrebbe invece bisogno di far ripartire l’economia, la politica, la vita».

La foto di apertura è tratta dal sito della Croce Rossa internazionale.