L’ospedale di frontiera di Nzara, in Sud Sudan, gestito dalle comboniane al confine con l’Uganda, è davvero prezioso. «E non perché qui facciamo miracoli o abbiamo dei super-dottori», precisa subito suor Laura Gemignani. E neanche perché ci siano particolari mezzi, a dir la verità. Anzi.

Semplicemente perché «il personale lavora, ha voglia di fare ed è motivato». E poi perché questo è davvero l’unico della zona. Può accogliere circa 150 persone alla volta, ma nei momenti di emergenza si dilata fino a contenerne oltre 200, senza considerare i malati di tbc. «Quando i letti non bastano più, si aggiungono posti a terra».

Suor Jan Frances, caposala ugandese

Nel giro di centinaia e centinaia di chilometri non si vede altro qui. Savana, bush, strade non asfaltate, niente acqua, elettricità, niente rete, solo piccoli villaggi.

L’unico vero ricovero, soprattutto per curare gli ammalti di Aids (che vengono a prendere le medicine e arrivano anche da Juba) è questo ospedale sorto nel 1983.

Suor Maria Mazzocco, una delle pioniere della missione in Sud Sudan. Oggi vive a Roma

Le comboniane appena rientrare in Sudan si diedero da fare inizialmente con le cliniche mobili tra Tombora e Nzara, finchè presero in gestione la struttura. Curavano  lebbrosi e tubercolotici.

«Adesso i lebbrosi sono pochi anche perché il vaccino contro la tbc ha funzionato anche per la lebbra. Ma è uscito fuori l’Aids», spiega suor Laura. E Nzara è purtroppo in pole position rispetto alla peste del XXI secolo.

«Dall’83 al 2015 le consorelle hanno lavorato qui senza acqua! Non ho idea di come facessero».

«Ma noi possiamo scegliere: o guardiamo le macerie – dice, citando Daniele Comboni– oppure fermiamo lo sguardo sui fiori che crescono oggi in mezzo alle macerie. Ed è questo che vuole fare il nostro ospedale».

I padiglioni sono piccole strutture diffuse: ciò che rimane di preesistenti costruzioni coloniali britanniche , dove gli inglesi venivano a passare il loro tempo libero.

Ma c’è un’altra ragione di fondo per cui in realtà Nzara è già un miracolo: ed è la ‘vision’ di suor Laura. Che è infermiera ma anche amministratrice.

Mentre parla e scorriamo le foto, la comboniana ogni tanto immagina quello che potrebbe esser integrato, migliorato, rifatto.

«Qui vorrei poter costruire una grande sala con finestre enormi – dice – dove  mettere i bambini ammalati di polmonite. Lì vedi, potrebbe essere diviso in due… Questo ospedale è costruito col ferro e non c’è controsoffitto, fa un caldo assoluto d’estate. Quando avrò i soldi rifaremo il tetto…».

E poi: «i letti li voglio così: semplici, perché è più facile tenerli puliti e non far accumulare la polvere. Qui invece vorrei costruire una mensa, così i medici e gli infermieri non devono tornare a casa per pranzo e non lasciano soli i pazienti».

E ancora: «I malati di tubercolosi stanno qui – e indica una foto – ma il padiglione deve essere distrutto e rifatto perché è tutto vecchio: ci sono i topi, i camaleonti ed entrano pure le scimmie e i serpenti!».

Nel Sud Sudan in guerra permanente da cinque anni, un ospedale è doppiamente importante: i danni sulla popolazione sono fisici, ma anche mentali, di relazione e umani. Il 65% delle donne in questo Paese dove a farla da padrone è la guerra etnica, è stato stuprato come «strumento di guerra». Le donne che hanno subito violenza non vengono a farsi visitare in ospedale, ma le bambine sì.

I cambiamenti si vedranno solo in futuro: «Comboni era un uomo dalla visione lungimirante – ricorda Laura – noi suore siamo le pietre nascoste nelle fondamenta che tengono una struttura. I risultati di quello che facciamo saranno visibili solo un giorno». Per ora l’ospedale di Nzara conta su una ventina di persone tra medici, paramedici, infermieri e trainer on job, diplomati che imparano il mestiere.

«I medici sono due fissi: un dottore ugandese che è bravissimo e che ha lasciato la famiglia in Uganda per stare con noi, e un ragazzo del Galles che fa il volontario».

Il lavoro degli infermieri è perciò fondamentale: ma per formarsi devono raggiungere le scuole che distano migliaia di chilometri. Ecco perché nella ‘vision’ di suor Laura c’è anche la creazione di una scuola per infermieri, dentro o nei pressi dell’ospedale.

«Se i tirocinanti sono bravi oggi li mandiamo alla scuola per infermieri. Adesso ne abbiamo 15 ma ci vogliono tre voli interni per raggiungere la città. Noi vorremmo mettere su una nostra scuola, il primo reparto è pediatria abbiamo 70 letti».

Perché è così importante una scuola infermieri? «Per mille ragioni – spiega suor Laura – e non ultimo per facilitare l’andare a scuola delle donne. E’ un modo indiretto ed efficace per aiutare la famiglia a rimanere unita: le ragazze che vanno a far la scuola infermiere devono lasciare i figli a casa per ora. Avere la scuola a portata di mano aiuta le mogli ad aumentare il   livello di istruzione e a diminuire i costi di gestione dell’ospedale».

Scorriamo altre foto: «Questa è la storia di un bambino che era quasi morto: la mamma gli metteva la manina davanti la bocca per sentire se respirava – racconta – capito che era in fin di vita ha chiamato il marito. Il dottore ha avuto una intuizione: il bambino era anemico. Un nostro dottore che aveva lo stesso gruppo sanguigno ha fatto la trasfusione di sangue. Quando è arrivato il papà, il bambino si era ripreso e stava seduto sul letto. Quel papà mi ha detto: “suora mi fa male il cuore”. Il bimbo aveva avuto  la malaria e glie era venuta l’anemia». E’ una storia di ordinaria quotidianità qui a Nzara, questa : la differenza la fa lo sguardo di chi cura.

Ogni paziente qui non è un numero e neanche un paziente, per la verità. E’ un essere umano con storie di sofferenza e lotta alle spalle. E come tale viene vissuto, curato e amato.