Le popolazioni indigene del Nord della Bolivia stanno facendo del loro isolamento l’arma per resistere al Coronavirus. Lo spiega monsignor Eugenio Coter, bergamasco,vescovo di Pando nel Nord della Bolivia, raggiunto telefonicamente nel suo ufficio dove ha molto da fare, malgrado la quarantena che dal 21 marzo ha fermato il Paese. «C’è molta preoccupazione perché le popolazioni indigene non hanno centri di assistenza sanitaria e medicinali – racconta monsignor Coter -. Se arrivasse una sola persona contagiata, l’epidemia si diffonderebbe rapidamente, non avrebbero modo di superare la crisi, di difendersi. Solo nel completo isolamento possono sperare di resistere al contagio. Non hanno che strumenti palliativi, preparati di medicina naturale, niente di adatto per fare fronte al Coronavirus». Il vescovo, che ha partecipato attivamente al recente Sinodo per la Regione Panamazzonica, vive a Riberalta, una città di 120mila abitanti, grande più o meno come Bergamo, in cui ci sono solo tre piccole strutture ospedaliere e dieci respiratori per la terapia intensiva. La sua diocesi comprende 400 comunità sparse su un territorio grande quanto un terzo della nostra penisola italiana, dove vivono 70mila persone. In Bolivia vivono circa 40 gruppi di etnie originali, tra cui i Quechua e gli Aymara sono i più numerosi.
Il problema delle popolazioni indigene a rischio estinzione a causa del contagio, denunciato dai vescovi dell’Amazzonia brasiliana nel documento “sulla situazione di persone e foreste nei tempi della pandemia Covid-19”, è urgente in tutta la regione latinoamericana. Anche se nel Nord della Bolivia, la situazione sembra ben diversa da quella del Paese di Bolsonaro, come dice monsignor Coter: «In Bolivia ci sono 2081 casi di contagio, un numero in aumento malgrado il lockdown stabilito dal 21 di marzo scorso. Lunedì prossimo passeremo alla “quarantena dinamica” a macchia di leopardo: le attività riprenderanno nelle aree in cui non si è diffuso il virus, sempre con mascherine, guanti e distanziamento sociale, senza assembramenti. Nelle zone dove i numeri del Covid sono in crescita continueranno le restrizioni. Santa Cruz è un problema, di tutti i suoi quartieri, 70 sono “zona rossa” e ci sono 1318 positivi; i contagi si registrano soprattutto nelle periferie dove la quarantena è stata meno rispettata e dove ci sono i mercati popolari. E’ un problema culturale: la gente è più preparata a difendersi da una tigre che da un virus».
Peraltro è proprio nei quartieri periferici delle grandi città risiede il 72% degli indigeni dell’Amazzonia boliviana e in molti «non hanno idea di cosa sia un virus, lo stanno scoprendo adesso. E’accaduto nelle periferie di Santa Cruz, la Paz, Cochabamba, Ururu, Potosì, Tarira, Sucre. A Pando ci sono stati 15 contagiati e un morto all’inizio dell’epidemia». Molte famiglie vivono di lavoro giornaliero e sono cadute in gravi difficoltà. Per loro in governo ha dato un buono una tantum di 72 dollari per tutta la quarantena. Ad aprile sono stati distribuiti tre milioni di buoni. Calcolando che uno stipendio medio mensile è di 380 dollari, si tratta di una miseria, ma comunque è stata una scelta positiva di Jeanine Áñez – che per rinuncia alle diverse cariche Costituzionali da vice presidente del Senato è diventata presidente della Bolivia dopo la fuga di Evo Morales – che ha permesso agli abitanti dei quartieri popolari in gran parte legati a piccoli commerci, di sopravvivere al blocco lavorativo della quarantena.
Per le popolazioni indigene che vivono in zone rurali, la Chiesa ha fatto e sta facendo moltissimo, grazie agli aiuti raccolti da Caritas, dal vicariato di Cobicha, dalla rete Ecclesiale Panamazzonica (REPAm) e da Adveniat «i parroci della mia diocesi stanno distribuendo aiuti di prima necessità a 3.500 famiglie delle varie parrocchie. Quando si arriva al confine con la zona delle comunità rurali disperse si lavano i camion, con la candeggina, si sanificano i pacchi, il posto di deposito degli alimenti. Il parroco di Cobija, la città alla frontiera con Brasile e Perù, la scorsa settimana ha mandato 18 tonnellate di aiuti alla popolazione Tacana che è 250 chilometri a Sud sul fiume Madre de Dios. In questa occasione si è avuto modo di parlare con le comunità indigene e ora stiamo divulgando alla stampa le loro dichiarazioni. Non è facile penetrare in queste vaste aree. Gli indigeni non vogliono che l’esercito porti aiuti perché i soldati che vengono dalle città potrebbero introdurre il contagio»