«Nel giro di pochissimo tempo sono stato investito di una responsabilità molto grande. Non vi nascondo che non è stato facile per me lasciare la comunità di Arvaiheer, nella regione di Uvurkhangai, dove ho vissuto per quasi 17 anni; lascio lì il mio cuore, le relazioni, le persone che si sono avvicinate, per la prima volta con me, alla fede».

A parlare con noi dalla Mongolia, è padre Giorgio Marengo, missionario della Consolata, nominato lo scorso 2 aprile da papa Francesco, prefetto apostolico della capitale Ulan Bator.

«La Chiesa in Mongolia è una realtà viva e dinamica che richiede molta attenzione e molto lavoro – dice padre Giorgio – È bellissimo, perché si sente la forza della comunità cattolica che inizia il suo percorso».

La prefettura apostolica ha carattere vescovile e padre Giorgio, a soli 45 anni, ha assunto su di sé un ruolo delicato, che lo vede impegnato in un compito diplomatico, di coordinamento tra le realtà missionarie della Chiesa, ma anche di dialogo interreligioso.

«Pur essendo questa una realtà piccola e lontana dal resto del mondo, è a suo modo completa e ha bisogno di interventi e di incoraggiamenti che assorbono molte energie», ci spiega. «La presenza ufficiale del Vaticano qui risale al 1992: da allora ci sono una serie di rapporti bilaterali con le autorità governative e la società civile – aggiunge – ; inoltre sono attive diverse congregazioni religiose, chiamate a collaborare armonicamente tra di loro».

La Mongolia, terra di confine tra Russia e Cina, è una ex Repubblica di stampo sovietico (era Repubblica Popolare Mongola fino al 1992), diventata uno Stato democratico, con il crollo del regime. E il credo maggioritario è quello buddista tibetano. Parlando dell’avventura missionaria, padre Giorgio ricorda che «tutto iniziò ad Ulan Bator, nel 1992, con l’arrivo dei primi tre missionari, tra cui monsignor Wenceslao Padilla, che con grandi sacrifici ha messo su un primo nucleo di Chiesa cattolica».

Fu un’impresa notevole e diede presto i suoi frutti, anche se tuttora i cattolici di questa prefettura apostolica formano una delle più piccole comunità di tutta l’Asia: sono appena 1300 su una popolazione di oltre tre milioni di persone.  

Nella regione di Uvurkhangai, nelle steppe dell’Asia centrale, dove padre Giorgio ha iniziato il suo cammino di pastore, la vita è molto diversa da quella frenetica della capitale. «Nel registro di Arvaiheer contiamo appena 52 battezzati: ma si tratta di una comunità cristiana vibrante e molto attiva. I giovani che hanno già fatto una scelta di fede sono i primi a chiederci maggior nutrimento e crescita cristiana».

Il popolo mongolo, «possiede una grande propensione alla dimensione spirituale dell’esistenza: il buddismo tibetano ha giocato un ruolo fondamentale per plasmare la cultura di queste persone, e si è innescato in un background sciamanico. È una società molto ben radicata in una visione sapienziale della vita». Con questi presupposti il percorso di fede è entusiasmante. 

I missionari della Consolata giunsero ad Arvaiheer nel 2006 e lì aprirono la loro seconda missione: in quegli anni il cristianesimo, lì, era ancora praticamente sconosciuto e il buddismo l’unica religione praticata, assieme ad una forte spiritualità sciamanica. In quella terra quasi disabitata d’inverno le temperature scendono a meno trenta e la chiesa non è in muratura, ma sorge sotto una ger, la tenda mongola fatta di legno e di feltro. I paesaggi sono incredibili e aiutano nella meditazione.

«Quando vado a pregare salgo sulla collina e vedo da una parte l’orizzonte immenso e vuoto degradante verso il deserto del Gobi e dall’altra le montagne della catena dei monti Hangai», racconta padre Marengo.

Foto tratte dal sito dei missionari della Consolata.