La seconda giornata di formazione per Missio Giovani si è aperta stamani con l’intervento di don Giuseppe Pizzoli, direttore della Fondazione Missio, che ha spiegato ai ragazzi la differenza che corre, nel contesto del viaggio, tra il “turista, il viandante e il pellegrino” e cosa sia l’esperienza estiva missionaria per chi parte.

“I nostri viaggi, i viaggi missionari, – ha detto Pizzoli – non sono da turista”.

Poichè il turista ritrova nel viaggio la sua confort zone e ricerca il già noto, senza uscirne cambiato nel profondo; ma non sono neanche da viandante: “il viandante va e non si sofferma nello stare”.

Il viaggio missionario dei giovani che partono per brevi esperienze estive è “qualcosa che aiuta a maturare dentro. Vai dall’altra parte del mondo per trovare te stesso? Sì!”.

Un viaggio a metà tra quello del pellegrino e quello dell’essere missionario, con approccio rivolto alla crescita personale in comunità.

La mattinata è proseguita con la testimonianza di Elisabettà Corà, missionaria fidei donum in Etiopia per tre anni e mezzo con la diocesi di Padova.

Elisabetta ha raccontato ai ragazzi il percorso che l’ha portata a scegliere la strada della missione, accettando una “chiamata” nella Prefettura apostolica di Robe, nel Sud dell’Etiopia.

Nel gennaio 2019 parte con don Nicola De Guio e don Stefano Ferraretto.

“Mi ha accompagnata nel percorso Anita Cervi, formatrice del Cum con la quale ho lavorato sulle mie motivazioni – ha ricordato Elisabetta – E la prima cosa che mi ha detto Anita è stata: ‘voi partite per voi stessi non per loro. Sei tu che hai bisogno.

E noi che ci sentiamo un po’ dei supereroi dobbiamo ridimensionare le nostre aspettative”.

Per Elisabetta l’arrivo in Etiopia non è stato facile: “tutte le volte il dialogo con le persone del posto iniziava con la parola money, soldi, era questo che ci chiedevano”.

La presenza di un bianco in Africa viene subito assimilata ad un’idea di ricchezza e di disponibilità economica.

“Ma la cosa sfidante – dice – è stata cogliere quanto anche noi siamo molto carichi di pregiudizi e smontarli”.

Il primo impegno concreto per lei (ma la missione è soprattutto uno stare, come tutti i missionari ripetono) si materializza in un servizio dentro la casa famiglia Adaba, con ragazzi soli.

“La loro è una fede genuina, fragile ma spontanea. La comunità più sfidante è stata quella di Kokossa, una zona dove la povertà è disastrosa con persone che non hanno nulla.

Abbiamo sognato insieme, per la comunità”.

Elisabetta è consapevole di non aver cambiato il mondo ma di aver provato a stare laddove Dio l’aveva chiamata: “il Signore ci dà quest’appuntamento, lasciatevi incontrare!”.