«In Africa ciò che conta davvero è il vivere: da quando si viene al mondo fin quando si muore si rende gloria alla vita e a Dio.  Ma la vita non è solo quella biologica, va oltre. Anzi si può dire che in questo senso la morte non esista».

Inizia così il nostro colloquio con Martin Nkafu, camerunense, docente di Filosofia presso la Pontificia Università Lateranense e padre del termine “Vitalogia”, la teologia secondo l’uomo africano.

Andiamo a trovarlo per parlare di culto dei morti, religioni tradizionali e sacrifici agli antenati e il professor Nkafu rivoluziona totalmente le nostre domande (ed anche le idee preconcette sulla morte in Africa) ripartendo dalla vita.

Professore, che significato ha la morte per un africano e per la religione tradizionale africana?

«E chi l’ha detto che la morte esiste? In Africa non si può pensare la morte senza l’immortalità. Tutta la vita è eterna proprio perché Dio è vita. Chiunque veneri gli antenati coltiva la possibilità dell’immortalità. Chi ama Dio e rende gloria a Dio alimenta la possibilità di diventare simile a Lui. Al momento della morte biologica si entra a far parte del mondo degli antenati per godere insieme a loro della vicinanza a Dio. Siamo fatti di corpo e di spirito e una volta morti nel corpo, la nostra anima si unisce a quella degli antenati formando l’Anima del mondo ed è questo stato che contempla l’immortalità. Bisogna perciò prepararsi al passaggio dalla vita alla morte e dalla morte alla vita».

Come avviene questa “preparazione”?

«Vivendo una vita buona ed esemplare nel solco di quella degli antenati. Tutte le volte che loro sono invocati si rendono presenti: non si tratta di una fantasia, essi sono eternamente con noi. Finché il defunto della famiglia o della comunità viene ricordato nelle cerimonie, nei sacrifici e le sue gesta in vita sono mantenute vive, il morto non è morto. E’ così che si diventa immortali. Il sacrificio che compio all’interno del culto non è facoltativo: dobbiamo rendere vivo l’antenato perché senza di lui non siamo più nulla».

Quindi il culto dei morti, attribuito agli africani, è stato male interpretato?

«Da sempre coloro che hanno avvicinato l’Africa senza conoscerne a fondo la cultura hanno scambiato per superstizione, idolatria o fanatismo quelli che invece sono solo valori profondissimi. Molti etnologi ed anche molti missionari per un certo periodo hanno creduto che gli africani facessero il culto dei morti, ma la realtà è che il defunto non esiste. O meglio, il morto occupa sempre un posto importante nella pratica religiosa in terra africana perché è sulla tomba dei propri cari (o degli antenati della comunità) che si placano tutte le dispute, che gli odi cessano. E’ sulla tomba del patriarca che si rinnova il patto di unità tra i vivi e coloro che hanno raggiunto Dio».

Ma è possibile per un africano dirsi ateo?

«Gli africani non sono capaci di essere atei! Non è che non vogliano, è che non possono, non riescono. L’idea del mondo e della vita senza Dio non è concepibile. L’esperienza religiosa non è una opzione tra le tante, ma è l’unica: permea tutta la vita della collettività in modo che, ovunque è l’africano, lì è anche la sua religione. Se è un contadino la porta con sé nei campi, se è un insegnante la porta con sé a scuola, se è un politico la porta con sé in Parlamento. L’ateismo rimane ciò che gli altri vorrebbero che gli africani fossero, ma senza risultato… Se una persona sa dire chi è Dio per lui non si può svilirla dicendo che è animista o, peggio ancora, che è ateo».

I morti e vivi dunque non si separano mai?

«Il pastore anglicano John S. Mbiti ha introdotto l’espressione di morti-viventi. Un’ampia trattazione si trova nel suo testo: “Oltre la magia – religioni e culture nel mondo africano”, edito dalla SEI. Secondo Mbiti i morti-viventi sarebbero gli antenati. I morti e i vivi non sono separati ma convivono perfino nello stesso spazio vitale e partecipano al culto religioso. Un elemento fondamentale da capire è che senza la presenza degli antenati non siamo certi che Dio ascolti davvero le nostre preghiere e le nostre suppliche. Conoscendoci meglio di quanto ci conosciamo noi, gli antenati (i morti-viventi), che godono della perenne presenza di Dio in quanto spiriti vicini a Dio, garantiscono il giusto culto a Dio e possono anche punire i vivi per la loro negligenza. Non si può non tenere conto dei morti-viventi nella pratica della religione tradizionale africana».

Esiste un corrispondente del paradiso e dell’inferno per la religione africana?

«Non direi. Non essendoci una storia del peccato originale e quindi non essendoci un’attesa della redenzione, la teologia del “dove si va una volta morti” non si è sviluppata. Certamente, però, non tutti diventano antenati, perché non tutti vengono ricordati ed evocati, se la loro vita non è stata esemplare. In realtà sono i vivi che tramandando il ricordo, rendono vivi per sempre i morti. Quelli che non vengono più evocati cadono nell’oblio… ed è come se non fossero mai esistiti. Ecco, questo in un certo senso è l’inferno».

Esistono i santi in Africa?

«Nella religione tradizionale africana quelli che potrebbero essere considerati come santi sono in realtà gli antenati. L’incontro con il cristianesimo per i popoli africani ha inaugurato una nuova fede in Dio. Dio non è più solo il Dio degli antenati, ma il Dio rivelatosi in Gesù Cristo. In Lui Dio può per la prima volta avere un volto umano: è una rivelazione. Questa affascinante notizia attira l’uomo africano che la ricerca. Gli africani sanno da sempre di essere figli di Dio ma non conoscevano il suo volto umano. Vedevano Dio nella natura ma non lo potevano raffigurare. Il luogo di culto e la religione per gli africani sono due cose separate: essi non adorano l’albero, ma l’albero è parte del tempio, la foresta sacra. Questo è il luogo in cui si manifesta: nel firmamento, nelle stelle, negli abissi del mare, tutti i giorni dall’alba al tramonto. La natura è il luogo dell’incontro».