Conosciute come African Independent Churches, o anche come All African Conference of Churches, le Chiese indipendenti africane, di denominazione cristiana, stanno assumendo sempre più vigore nel continente.

La loro forza è visibile soprattutto in momenti di grande difficoltà, come quello attuale, in cui alla povertà endemica africana e ai conflitti permanenti, si aggiungono altri elementi destabilizzanti.

“La prima cosa che dobbiamo riconoscere a queste Chiese è il fatto che cercano di colmare il vuoto lasciato dalla ‘assenza di Dio’ nelle comunità. In Africa, oggi più che mai, si sente che la fede cristiana ha bisogno di ‘inculturarsi’ e rinnovarsi, ma attenzione, questo sempre tenuto conto dell’unità ecumenica della Chiesa”.

Martin Nkafu, camerunense, docente di Filosofia presso la Pontificia Università Lateranense e padre del termine “Vitalogia”, aiuta a decifrare la portata di questo fenomeno, non certo recente. Un esempio tra i più datati è il movimento degli antoniani, nel Congo del XVIII secolo, o quello delle chiese etiopiste, proliferate a fine Ottocento in Sudafrica.

«Partiamo dal presupposto che la fede cristiana africana è una fede viva e vivace: si va in chiesa per esprimere la gioia di vivere anche se non si tratta di cerimonie folkloristiche – dice Nkafu –. Si va in chiesa per pregare attraverso l’espressione corporea». Tramite canti, danze e preghiere che usano molto la dimensione fisica.

Nei diversi contesti culturali mondiali, precisa il teologo, “lo Spirito Santo ha suscitato sempre nuove vie per la comprensione del messaggio di salvezza che Gesù ha portato nel modo grazie all’incarnazione”.

Dunque, se intese come tentativo di ravvivare la fede cristiana, alla luce della cultura locale, le Chiese indipendenti non possono essere viste – afferma lo studioso – come una minaccia. Dobbiamo tuttavia “mettere in guardia dalle nuove eresie – avverte – come nel tempo di sant’Agostino e di Tertulliano; le eresie minavano l’unità della Chiesa e la professione della retta fede”.

Uno dei rischi maggiori che si nascondono dietro le African Instituted Churches (Chiese istituite africane) è proprio quello della idolatria dei fondatori. Che non devono diventare «nuovi profeti, né propinare un nuovo Vangelo da annunziare, ma un nuovo vigore nel vivere la fede matura e adulta».

Uno dei problemi nel cercare di comprendere «queste fraternità, queste chiese e persino i movimenti ecclesiali nei nostri giorni, è proprio il ruolo dei loro fondatori, la dottrina che sottostà alla loro testimonianza evangelica».

Deve esser chiaro, dice Martin Nkafu, che si tratta di «un pluralismo dentro l’unità della Chiesa» e non di una scissione.

C’è chi considera le Chiese indipendenti come «momenti nella logica della Pentecoste, c’è chi invece le tratta come sette, poiché – argomenta Nkafu – in molti casi vi sono deviazioni dalla fede che rischiano di falsificare il messaggio».

Per concludere, dice il docente, «deve essere ben chiaro che non si parla di chiese autonome dalla Chiesa missionaria, ma di una versione culturalmente situata del vissuto cristiano del popolo». Solo in quest’ottica di “inculturazione” del vangelo, possiamo parlare di una religiosità genuina e non settaria.

Il professor Nkafu aggiunge che i fedeli e i pastori «andrebbero aiutati a comprendere la sorgente e le radici stesse della loro fede. È probabile, ad esempio, che la chiesa (intesa come edificio, come luogo di culto) esuli in molti casi dai luoghi chiusi. In Africa, giacché la natura è il luogo maestro della manifestazione di Dio, è nella natura che si celebra la vita e si offrono sacrifici a Dio con tutti se stessi. Attraverso musica, canti, danze e lodi, vestiti per l’incontro con Dio».