La crisi armata che insanguina, dall’agosto scorso, la provincia congolese del Kasai centrale, è la cartina al tornasole di ciò che sta avvenendo, su scala nazionale, nella Repubblica democratica del Congo. Da quelle parti, nel pressoché totale disinteresse delle cancellerie internazionali e nella disinformazione quasi totale dell’opinione pubblica mondiale, è in atto una vera guerra civile, d’inaudita ferocia, che contrappone una formazione ribelle denominata Kawmina Nsapu, alle truppe dell’esercito regolare. La dice lunga l’annuncio, ieri, da parte di fonti delle Nazioni Unite, del ritrovamento di 13 fosse comuni che si aggiungono ad altre 10 rinvenute nei giorni scorsi. Al momento, è difficile avere un computo esatto delle vittime, ma si tratta certamente di diverse centinaia; per non parlare degli oltre 200mila sfollati, molti dei quali costretti a sopravvivere all’addiaccio.
Si tratta dell’ennesimo conflitto che oppone lo Stato centrale a un gruppo armato, a riprova del malessere che attanaglia il gigante congolese.
Da rilevare che sempre ieri, l’agenzia Fides ha diffuso la notizia che il 31 marzo scorso, i ribelli hanno attaccato la città di Luebo, saccheggiando e bruciando diversi edifici tra cui alcuni della Chiesa locale: l’episcopio, la cancelleria, gli uffici del coordinamento delle scuole cattoliche e i noviziati dove vengono formate le religiose. Addirittura è stata profanata la cattedrale di San Giovanni. La situazione è precipitata quando, una decina di giorni fa, gli insorti hanno teso un agguato a un convoglio militare, disarmando gli agenti delle forze di sicurezza. Quaranta di loro, poco dopo, sono stati barbaramente decapitati. Sequestrate tutte le armi. Sei militari sono stati rilasciati solo perché parlavano thsiluba, la lingua locale, confermando i timori di molti osservatori che ritengono vi sia anche una matrice etnica nel conflitto in corso.
Purtroppo, quanto sta avvenendo nel Kasai è sintomatico della crisi politico-istituzionale che attraversa l’ex Zaire. La scorsa settimana è fallita la mediazione della conferenza episcopale congolese che ha tentato per mesi d’indurre il governo di Kinshasa a siglare un’intesa con l’opposizione. Sta di fatto che il presidente uscente, Joseph Kabila, continua a fare il bello e cattivo tempo, minacciando di rimanere al potere, nonostante abbia già svolto due mandati e la Costituzione gli impedisca di correre per un terzo. Stiamo parlando di un Paese, la Repubblica democratica del Congo, con immense potenzialità, autentico crogiuolo di popoli – oltre 67 milioni gli abitanti, suddivisi in trecento principali etnie – fatto d’immense foreste equatoriali con una vegetazione spontanea che costituisce il più ricco emporio di piante esotiche, tra le quali primeggiano gli alberi dei legni più preziosi, quali l’ebano e il mogano. Per non parlare dei suoi fiumi o delle immense ricchezze del sottosuolo che accolgono l’intera gamma dei minerali del nostro pianeta.
Le tensioni che attraversano il Paese, di fatto, agevolano il gioco di Kabila che, facendo leva sulla persistente situazione emergenziale, ha una serie di pretesti per rinviare la consultazione elettorale che lo costringerebbe a uscire di scena. D’altronde, la rivolta nel Kasai non è l’unica in atto in questo grande cuore ferito dell’Africa. È crescente lo scontento popolare anche nel ricchissimo Katanga, nel settore meridionale del Paese, come anche lungo la fascia orientale, nel Nord e Sud Kivu , come anche nella regione dell’Ituri. Insomma, la Rdc è sempre più in bilico, ostaggio dell’oligarchia al potere, mentre le opposizioni sono divise e la società civile è messa a tacere.
Al momento, sulla scena internazionale, l’unica voce autorevole che si è levata per esprimere a chiare lettere piena solidarietà al popolo congolese è quella di papa Francesco. Domenica scorsa, da Carpi, prima della recita dell’Angelus, il Papa ha ricordato nella preghiera le vittime del Kasai, «affinché i cuori degli artefici di tali crimini non rimangano schiavi dell’odio e della violenza, perché sempre odio e violenza distruggono». Quando il mondo si deciderà a vedere e a dire “basta”?