La recente assegnazione del premio Nobel per la pace al primo ministro dell’Etiopia Abiy Ahmed Ali ha molti significati rispetto ai quali è necessario riflettere. Anzitutto stiamo parlando del politico oggi più in vista in Africa per autorevolezza, età, impegno e visione innovativa. Come molti analisti internazionali hanno evidenziato, l’Unione africana (Ua), a livello continentale, ha estremo bisogno di nuovi leader, del calibro di Abiy, capaci di fare sistema, contrastando l’indirizzo delle oligarchie finora dominanti. Significativo, ad esempio, è il suo impegno nella soluzione della crisi libica e nella politica interna al Sudan. Se da una parte è vero che nel passato l’Africa ha avuto statisti del calibro di Léopold Sédar Sénghor (Senegal), Julius Nyerere (Tanzania), Kwame N’Krumah (Ghana) o Nelson Mandela (Sudafrica), da alcuni anni si avvertiva l’esigenza, sul palcoscenico africano, di un personaggio che riuscisse a ridare idealità alla politica, andando al di là dei tradizionali paradigmi. L’obiezione mossa da alcuni opinionisti è che Abiy sia, per così dire, finito nella stanza dei bottoni ad Addis Abeba solo lo scorso anno, vale a dire dal 2 aprile del 2018. Pertanto il riconoscimento del prestigioso premio sarebbe stato, alla prova dei fatti, prematuro. Dunque, per una valutazione obiettiva sarebbe forse valsa la pena attendere almeno un quinquennio. La risposta a questa obiezione, peraltro legittima, è comunque rintracciabile nella motivazione del premio: «Per i suoi sforzi per la pace e la cooperazione internazionale, in particolare per la sua decisiva iniziativa per risolvere il conflitto frontaliero con la vicina Eritrea». In effetti, all’inizio dell’anno scorso nessuno avrebbe immaginato che il 2018 sarebbe stato un tempo di cambiamenti così radicali nelle relazioni tra Etiopia ed Eritrea e più in generale nella cornice geopolitica del Corno d’Africa. Infatti, il disgelo nelle relazioni diplomatiche tra Addis Abeba e Asmara ha avuto proprio lui come artefice, il giovane Abiy Ahmed, che ha subito espresso un indirizzo politico all’insegna del dialogo a 360°, non solo con le opposizioni interne, ma anche con la vicina Eritrea. Significativa è stata la sua rinuncia alle rivendicazioni territoriali lungo il confine tra i due paesi, che hanno rappresentato l’oggetto del contenzioso sfociato, il 1 maggio del 1998, nella sanguinosa guerra fratricida per il possesso di Badme, una località sperduta a cavallo del vecchio confine coloniale italo-abissino. Per quella petraia sassosa e polverosa morirono circa ottantamila soldati, in uno scenario bellico a dir poco devastante. Poi dal 2000, con gli accordi di Algeri, si giunse a un «cessate il fuoco provvisorio», interrotto, a tratti, da scontri sporadici quanto violenti.

Ma ora, grazie ad Abiy, questa è una storia del passato e lui, come ha dichiarato in più circostanze, vuole voltare pagina, guardare al domani, senza essere ostaggio di un passato fatto di miserie. La riapertura, dallo scorso anno, della rotta aerea diretta tra le due capitali, Addis Abeba e Asmara, del commercio bilaterale e delle rispettive ambasciate, sono segnali incoraggianti. Naturalmente, questo nuovo corso è stato reso possibile grazie al rapido cambiamento impresso dal suo esecutivo. Nel febbraio del 2018, mentre si acuivano le voci di un’imminente guerra civile, l’allora primo ministro Hailemariam Desalegn rassegnava le dimissioni aprendo la corsa per la successione all’interno della coalizione al potere, il Fronte democratico rivoluzionario del popolo etiope (Eprdf). Dopo due giorni di discussioni è risultato vincitore proprio Abiy, all’epoca vicepresidente della regione di Oromia. Nonostante le obiezioni mosse all’interno della coalizione dal Fronte popolare di liberazione del Tigrai (Tplf) — una delle quattro formazioni politiche su base etnica che formano la coalizione al governo — Abiy è stato nominato presidente dell’Eprdf e quindi primo ministro, primo oromo a ricoprire questa carica nella storia dell’Etiopia. Abiy, una volta al potere, è stato abilissimo, lanciando la più rapida operazione di apertura politica mai vista nella storia nazionale. Quarantatré anni, ex ministro della Scienza e della Tecnologia, Abiy è nato in una famiglia di umili origini, padre musulmano oromo, madre cristiana amhara. Da rilevare che da giovanissimo ha svolto parte del servizio militare nei Tigrè (dove ha imparato il tigrino), raggiungendo il grado di tenente colonnello. Successivamente, ha fondato e diretto l’agenzia governativa responsabile della sicurezza informatica.

Sta di fatto che Abiy, una volta in carica, ha avviato da subito cambiamenti forti e radicali. Anzitutto ha decretato la fine dello stato d’emergenza, liberando 60 mila oppositori politici (tra i quali figuravano molti giornalisti), denunciando l’uso della tortura da parte dei servizi di sicurezza dello stato e revocando la messa al bando di gruppi dell’opposizione che erano stati etichettati come organizzazioni terroristiche. Inoltre, nei primi cento giorni del suo governo, ha licenziato i funzionari carcerari implicati nelle violazioni dei diritti umani, in ottemperanza alle indicazioni fornite da autorevoli organizzazioni come Human Rights Watch, e ha affidato metà degli incarichi di governo a donne. Come se non bastasse, a una settimana dalla formazione del suo esecutivo, la virtuosa rivoluzione politica di Abiy ha raggiunto l’apice con la nomina alla presidenza di Sahle-Work Zewde, prima donna ad assumere questa carica nella storia nazionale e attualmente la sola in tutta l’Africa. Si è anche impegnato a indire libere elezioni nel 2020 designando come capo della commissione elettorale Birtukan Mideksa, una distinta signora leader di un partito dell’opposizione. Il programma di governo di Abiy è incentrato «sull’unità del paese e l’orgoglio nazionale», con l’intento di favorire l’integrazione tra i numerosi gruppi etnici che compongono l’Etiopia. Purtroppo le difficoltà non mancano per Abiy, dovendosi misurare con l’ostracismo dei suoi avversari che giudicano pericolose le sue riforme. Ha già subito un attentato il 23 giugno del 2018 e lo scorso 22 giugno è stato sventato un colpo di stato. In un paese dove un tempo le spie governative erano dappertutto mentre oggi si è liberi di esprimere le proprie opinioni, con l’abolizione della censura e la riabilitazione degli ex gruppi dissidenti, alcune etnie rivendicano più autonomia per le loro regioni, a volte anche ostentando violenza.

Intanto, lo scorso 26 ottobre, il capo della polizia della regione dell’Oromia, Kefyalew Tefera, ha dichiarato che 67 persone hanno perso la vita nella regione, tra cui cinque agenti di polizia, a causa di scontri a sfondo etnico. Negli ultimi giorni il bilancio delle violenze è salito a 86 vittime.

Abiy è certamente preoccupato e sarebbe intenzionato a modificare la costituzione del 1994 — soprattutto il modello di federalismo su base etnica — a condizione però che vi sia un legittimo mandato popolare, cioè uscendo vincitore dalle prossime elezioni. Il primo ministro avrebbe in mente, qualora riuscisse a consolidare la sua leadership politica, una riforma radicale capace di affermare l’agognato cambiamento attraverso un sistema presidenziale, con un capo dello stato eletto direttamente dal popolo e non dal parlamento che, attualmente, è controllato dalla sua coalizione, l’Eprdf.

Naturalmente, nell’agenda di Abiy vi sono anche le riforme economiche e la questione occupazionale. Alle privatizzazioni nel settore delle telecomunicazioni, dovrebbero seguire quelle del trasporto marittimo, ma anche degli zuccherifici, dell’energia e forse persino dell’Ethiopian Airlines, compagnia aerea nazionale, che ha reso Addis Abeba il primo hub aeroportuale del continente. Lodevole, in particolare, è stata la rinegoziazione del debito commerciale a condizioni agevolate con alcuni paesi, Cina in primis, mentre invece ha suscitato perplessità in alcuni circoli diplomatici la richiesta di prestiti e investimenti ad alcuni governi del mondo arabo. Non è un caso se già all’indomani della sua nomina, il premier etiope si sia recato nella capitale saudita, Ryad, per incontrare l’erede al trono, il principe Mohammed bin Salman. Per le rispettive diplomazie, vi sarebbe la determinazione di creare un nuovo arco d’alleanze dal Mar Rosso all’Oceano Indiano, in grado di contenere l’esuberanza di Turchia e Qatar in Sudan e in Somalia. Tra le sfide più difficili del suo esecutivo vi è soprattutto quella di decidere a che ritmo liberalizzare un’economia che mostra segni di rallentamento. La crescita del Pil reale, pur rimanendo sostenuta al 7,7 per cento, ha subito un rallentamento principalmente a causa della stasi degli investimenti infrastrutturali. L’Etiopia, inoltre, è il secondo paese in termini demografici in Africa, dopo la Nigeria, e quasi il 70 per cento della popolazione è giovane, quindi creare posti di lavoro è importante per la stabilità politica del governo. Di fronte a queste sfide Abiy comunque non ha paura. Sul «Financial Times» del 20 febbraio scorso è stato pubblicato un articolo sul nuovo corso dell’Etiopia in cui si legge un virgolettato a effetto di Abiy: «Per conquistare la popolarità dovrei fare uscire dalla povertà almeno 60 milioni di persone. Se ci riesco, il mio nome passerà alla storia». L’assegnazione del Nobel è dunque un incoraggiamento più che meritato.

 

Osservatore Romano, 5 novembre 2019