Mi ha sempre molto attratto l’idea di essere, come laico, una parte attiva del “corpo ecclesiale” composto da tante membra, dove ciascuno ha il suo posto e compito, senza alcuna supremazia morale, pur con funzioni diverse ma con uguale dignità gli uni rispetto agli altri. Di fatto, l’interpretazione che se ne potrebbe trarre è quella di un sistema di governance democratico, fondato sulla sussidiarietà, perché il corpo agisce nel pieno delle sue funzioni solo se vi è totale e collaborativa interdipendenza tra le sue parti. Ecco che la vera politica con cui viene esercitato il potere nella Chiesa, alla luce del Vangelo, non può che chiamarsi servizio.

Per questo nel magistero sociale la politica assume i caratteri della carità; e non solo al di fuori della Chiesa, evidentemente. È pur vero, però, che l’immagine di Chiesa che nel corso degli anni, anche dopo il Concilio Vaticano II, si è andata fissando nel mio pensiero è quella di una Istituzione umana costituita essenzialmente dal clero, suddiviso nelle sue molteplici funzioni gerarchiche, assistito da personale religioso consacrato, maschile e femminile, e disposta all’inclusione più o meno selettiva di un laicato composito per storia, per cultura e soprattutto per esperienza di vita nel mondo, sempre visto con una certa diffidenza se non come minaccia per la diffusione della vera fede. Ben diverso, quindi, lo “stereotipo” di Chiesa democratica derivato dalla mia lettura “popolana” del Vangelo, rispetto alla sua percezione storica contemporanea tra la gente comune alla quale appartengo.

In realtà, però, ho potuto toccare con mano la permeabilità, a volte rozza ed altre volte delicata, di questa “Istituzione”, in particolare durante i periodi di servizio di volontariato internazionale, allorquando ho avuto a che fare, in modo diretto e costante, con la “gerarchia” anche solo per puri motivi di lavoro per la realizzazione di progetti di sviluppo nel settore idrico, agricolo e sanitario. La profonda e disarmante umanità incontrata tra chi è ritenuto la Chiesa e il sottoscritto che, invece, farebbe parte di chi è della Chiesa, mi ha presto distolto da letture omologanti di un popolo di Dio ferreamente suddiviso per classi e ceti social-religiosi. No, i laici, per quanto servitori “a ore” della vigna, svolgono spesso in modo spontaneo e sincero, e quasi sempre inconsapevolmente, ma senza ingenuità, il compito di difesa della Chiesa (che è popolo di Dio) da chi la attacca da fuori e da dentro per dividerla. Eppure la corresponsabilità, spesso richiamata come un mantra in molti documenti ecclesiali dei nostri tempi, a proposito del ruolo dei laici nella Chiesa, risuona in tutta la sua ambiguità di significato se la caliamo nelle realtà ecclesiali in cui essa viene maggiormente invocata: da alcuni è intesa come delimitazione assoluta ed irremovibile di funzioni/ministerialità non attribuibili ai laici in campo pastorale ed anche liturgico.

Per altri, invece, specialmente nelle cosiddette terre di missione, la presenza attiva e quindi responsabile dei laici nella vita delle comunità cristiane viene accolta non come surrogato della funzione clericale, ma come vera esperienza di evangelizzazione, capace di esprimersi anche nelle forme liturgiche e sacramentali. Provare per credere! Chiedete a un qualsiasi missionario in Africa o in America Latina quali sono i “doveri” primari dei laici catechisti nei confronti delle proprie comunità cristiane? Difficilmente vi verrà risposto con uno schema di catechesi in cui vengono suddivisi i bambini nelle varie classi scolastiche di appartenenza, per prepararli a ricevere i sacramenti dell’iniziazione cristiana e formarli alle verità della fede; molto più plausibilmente la risposta potrà riguardare l’invito a partecipare all’incontro domenicale in Chiesa (che non sempre contempla la celebrazione della messa, data la penuria di sacerdoti) nel corso del quale vengono impartite sì le “lezioni” di catechismo, dirette con mano ferma dai catechisti, ma sempre allietate da canti gioiosi e danze, accompagnati con tamburi e strumenti musicali d’ogni genere. Questi incontri domenicali, in particolare nelle località più remote, assumono anche un carattere liturgico e richiamano l’intera comunità cristiana di un territorio a volte molto vasto, per la semplice celebrazione domenicale della Liturgia della Parola condotta da laici/catechisti (uomini e donne) formati a tale funzione ministeriale, con anche la distribuzione dell’eucaristia appropriatamente conservata.

È interessante rilevare che in questa dinamica di riconoscimento del ruolo dei laici nella liturgia e nella catechesi nel contesto missionario ad gentes sono spesso pienamente partecipi e promotrici, in quanto religiose e donne soprattutto, le suore missionarie che non di rado amministrano lecitamente alcuni sacramenti, fungendo da parroco in molte realtà ecclesiali prive di un sacerdote assegnato in forma stabile alla comunità. Purtroppo sono rare, invece, le esperienze dirette di laici fidei donum in queste forme di accudimento delle comunità cristiane seguite dal prete missionario solo occasionalmente (in molti casi meno di una messa mensile); si stenta ad incaricare un laico missionario a condurre la Liturgia della Parola e la distribuzione della eucarestia, benché portatore di provate competenze in campo religioso. Difficile pensare che sia solo l’eventuale scarsa padronanza della lingua locale da parte del laico fidei donum a tenerlo lontano da quelle ministerialità che sono, invece, normalmente concesse ai catechisti locali. Qui non si tratta, ovviamente, di rivendicare per i laici f.d. ruoli o funzioni che altri già stanno svolgendo al meglio delle loro capacità, semmai verrebbe da accostare la funzione del laico f.d. a quella del prete f.d. nel processo di evangelizzazione che comprende la costante verifica critica del proprio operato anche rispetto agli “omologhi” locali, preti e laici. Bisogna sempre ricordare, infatti, che si è a servizio di una Chiesa locale e non di un proprio progetto personale, magari elaborato a tavolino mentre si era ancora nella propria diocesi di invio. Ancora più rare, se non del tutto assenti nonostante la progressiva rapida riduzione del numero di preti rispetto al numero di comunità parrocchiali, sono le esperienze di servizio di laici fidei donum rientrati dalla missione che potrebbero esercitare nella propria diocesi di origine le ministerialità sperimentate, apprese e acquisite durante il servizio missionario sotto la guida anche del vescovo locale. Non è detto che sia questa la via migliore per ridare slancio all’azione missionaria nelle nostre comunità secolarizzate, ma varrebbe certamente la pena avviare almeno ad experimentum esperienze di vera corresponsabilità contando anche sull’apporto creativo dei laici fidei donum. Per la verità qualcosa già si sta facendo da qualche parte, ma l’esiguità dei numeri non è di grande conforto. Tutto questo per ribadire che l’evangelizzazione è compito di tutta la Chiesa; che l’annuncio del Vangelo è dovere di ogni battezzato, nei modi e nelle forme che ogni situazione richiede, sempre preservando, anche per i laici fidei donum, uno stile missionario orientato alla testimonianza e non al proselitismo e libero da qualsiasi vincolo culturale e religioso di tipo colonialistico.

*Giuseppe Magri è stato con la moglie Anita Cervi e la famiglia in più periodi durati anni volontario in Etiopia con l’LVIA. Ha ricoperto diversi incarichi legati al mondo missionario in ambiti nazionali. Attualmente è membro del Comitato della Conferenza Episcopale Italiana per gli Interventi Caritativi a favore del Terzo Mondo. Con Anita vive in una canonica nella montagna veronese, a servizio della comunità ecclesiale.

 

(tratto da NotiCum –  Il volto della missione || Anno 57 – n. 3 – Marzo 2020)