Il continente africano si sta spaccando? Un’ antica faglia che attraversa il Kenya sta dando segnali inquietanti di risveglio.

Si tratta di un processo geologico iniziato milioni di anni fa in una zona ricca di attività vulcanica. Ma anche di straordinari reperti delle origini della presenza dell’uomo sul pianeta.

Lo scorso 2 aprile in Kenya è avvenuto un qualcosa di sorprendente che ha suscitato grande interesse da parte della stampa internazionale.

Infatti, dopo un lungo periodo di piogge intense, ad un centinaio di chilometri ad Occidente della capitale Nairobi, si è aperta nel terreno un’impressionante frattura profonda una quindicina di metri e, in certi punti, larga anche una ventina, tagliando in due la strada statale che collega Maai Mahiu a Narok.

Secondo gli esperti, la frattura era preesistente ai violenti fenomeni temporaleschi, ma coperta da ceneri provenienti dal vicino vulcano Longonot, attivo particolarmente nella preistoria. Sembrerebbe, insomma, che la spaccatura sia soltanto uno spazio liberato dalle polveri vulcaniche, in conseguenza dell’azione svolta dall’acqua piovana.

Le prime avvisaglie, stando alle testimonianze raccolte dalla stampa locale, si erano già avute il 18 marzo.

Sta di fatto che due settimane dopo, il giorno del cosiddetto Lunedì dell’Angelo, alcuni edifici sono crollati, altri sono stati seriamente danneggiati ed altri ancora, a scopo cautelativo, sono stati evacuati e dichiarati inagibili dalle autorità locali.

È comunque evidente che quanto è avvenuto è una delle manifestazioni di un processo geologico che ha avuto origine milioni di anni fa che porterà al distacco della placca somala da quella nubiana. Queste voragini, dunque, sono l’effetto superficiale di forze potentissime che agiscono nel sottosuolo.

Siamo nella Rift Valley, detta anche Great Rift Valley, un attivo sistema di fosse tettoniche che si estende per circa 3.500 chilometri lungo il bordo orientale africano, dalla depressione della regione etiopica della Dancalia, fino al Sudafrica, e che a settentrione continua, attraverso il Mar Rosso fino alla Siria, lungo un asse segnato dal Golfo di Aqabah, dal Mar Morto e dalla valle del fiume Giordano.

La sua attività, nell’arco di 30-50 milioni di anni, potrebbe portare alla formazione di un nuovo oceano, a partire proprio dal Mar Rosso. Questo in sostanza significa che secondo le previsioni ragionate dei geologi, ben quattro Paesi del Corno d’Africa – vale a dire la Somalia e metà Etiopia, Kenya e Tanzania – dovrebbero dividersi dalla piattaforma continentale per dare origine ad un nuovo continente.

Un fenomeno che si è già verificato nel passato con la deriva tettonica che ha determinato la nascita del Madagascar nell’Oceano Indiano e della Nuova Zelanda nel Pacifico. Stando a recenti rilevamenti, la placca africana vera e propria e quella somala, lungo la depressione della Rift Valley, si stanno allontanando di circa cinque, sei millimetri all’anno. L’attuale assetto del sistema della Rift Valley è molto complesso ed è determinato dall’attività magmatica e dai movimenti tettonici che hanno generato diversi segmenti il cui andamento sembra essere stato condizionato da strutture precedenti all’era paleozoica, riattivatesi nel corso di cicli successivi, che avrebbero conferito differente rigidità a diversi settori della crosta terrestre.
Da rilevare che la zona più settentrionale, quella compresa tra l’altopiano etiopico e quello somalo, contrassegnata dai laghi Zuai, Abaya e Turkana, è stata abitata, nel Pleistocene, dai primi australopitechi fino all’homo sapiens.

L’associazione tra ritrovamenti paleoantropologici e la struttura geologica della Rift Valley non è casuale, dal momento che l’attività vulcanica e tettonica responsabile della formazione di queste depressioni e la contemporanea sedimentazione hanno creato condizioni ideali per la proliferazione della vita. In parallelo, colate di lava, sedimenti vulcanoclastici e ceneri vulcaniche hanno coperto rapidamente i resti animali e vegetali permettendo così la preservazione dei fossili. Basti pensare alla valle del fiume Omo, in Etiopia, abitata fin dagli albori dell’umanità.

Qui sono stati rinvenuti i resti di un australopiteco, risalenti a due milioni e mezzo di anni fa, e sono stati scoperti anche i resti di altri ominidi e segni della permanenza dell’homo sapiens, quali quarzi scheggiati, risalenti a circa 190mila anni fa.

Le acque, raccolte dal fiume Omo, finiscono nel lago Turkana, un grande bacino – 6.405 chilometri quadrati, profondità media 30 metri – che si estende per la maggior parte oltre il confine etiopico, in territorio in Kenya.

Un territorio che è considerato essere la culla dell’umanità, peraltro con una lunghissima storia geologica che si perde nella notte dei tempi, fatta di attività tettoniche e vulcaniche che, comunque, proseguiranno, rientrando questi processi in quella che è la fisiologia dinamica del nostro pianeta.

Sebbene il sistema della Rift Valley attraversi l’interno del continente africano, è strettamente associato al grandioso sistema di dorsali oceaniche, originatesi all’inizio del Mesozoico, che circonda il globo terrestre.

Una cosa è certa: viaggiando nell’Africa Orientale, la parte del continente che chi scrive conosce meglio, si viene letteralmente travolti dalla natura fatta di paesaggi paradisiaci come quello del Longonot di cui sopra, un impatto che contrasta con le grandi città dove l’urbanizzazione ha costretto la gente, soprattutto i ceti meno abbienti, ad indicibili sacrifici.

Credo che un po’ tutti in Europa o negli Stati Uniti abbiano visto in televisione, almeno una volta, i documentari della BBC o del National Geographic Channel.

Per quanto possa trattarsi di produzioni artistiche di tutto rispetto, quelle immagini riescono a rendere un infinitesimo rispetto alla realtà africana che appare distante anni luce dall’immaginario occidentale.

E allora si capisce perché di fronte a questa Africa così seducente, Karen Blixen scrisse nel proprio diario, durante i suoi innumerevoli safari: «Il respiro del panorama era immenso. Ogni cosa dava un senso di grandezza, di libertà, di nobiltà suprema…».

Una visione romantica, ma che forse, paradossalmente, non riusciva a cogliere la vera ricchezza del continente di cui la Rift Valley è il locus per eccellenza. Essa è costituita innanzitutto e soprattutto, ancora oggi, da quell’esiguo numero di etnie africane le quali, favorite dall’isolamento, conservano ancora immutate nel tempo un’esistenza regolata da leggi primordiali.

E in effetti, proprio l’esistenza di queste popolazioni che hanno mantenuto la loro identità e libertà, rimanda ad un connettivo sociale, in apparenza molto fragile, ma in realtà estremamente radicato, essendosi formato in condizioni di assoluto disagio in un territorio ostile. Ecco che allora, per quanto il progresso umano rappresenti per questa gente un’occasione di riscatto, esse meritano rispetto, rivendicando una dignità che l’uomo tecnologico del Terzo millennio ha tristemente smarrito.