Eliminato il vincolo del doppio mandato per il Presidente, la Cina intraprende un percorso sempre più autocratico, agevolato dall’adozione di provvedimenti che di fatto eliminano il dissenso. Nel mirino ci sono soprattutto attivisti, avvocati, blogger, giornalisti. Intanto il sogno imperiale di Xi Jinping si costruisce pezzo per pezzo: è la “nuova via della seta”.

«Dopo cena ero uscita per comprare della frutta. All’ingresso del nostro compound mi aspettava un gruppo di Chaoyang Aunties (donne volontarie che collaborano con le forze dell’ordine, ndr) che mi hanno circondata e bloccato. Mi hanno spintonato, urtato e sono andate oltre dando manforte alla più “anziana” tra di loro che mi spingeva. Ero senza parole, ho chiamato la polizia e la polizia non è arrivata».

E’ il racconto che fa Liu Wenzu, moglie dell’avvocato e difensore dei diritti umani cinese Wang Quanzhang, prelevato nell’agosto 2015 da Pechino e portato in carcere. La signora Li ricostruisce dettagliatamente il modo in cui è stata lei stessa prelevata con la forza, in strada e chiusa in casa subito dopo aver partecipato ad una marcia di protesta in difesa di suo marito, tre anni dopo la sua dipartita.

Wang è ancora prigioniero in una delle migliaia di carceri cinesi per il solo fatto di essere uno human rights defender, un difensore dei diritti umani, che assiste le vittime di abusi nella Cina di Xi Jinping.

La stampa di tutto il mondo ad aprile scorso ha parlato della marcia di Li. Ma pochi si sono soffermati sull’epilogo, durato alcuni giorni.

«Sono sotto assedio dentro casa mia – scrive Li Wenzu in un testo poi tradotto dal sito Human Rights in China – circondata da 40-50 persone. Gli amici che sono venuti a trovarmi sono stati bloccati fuori. Posso soltanto urlare dalla finestra per parlare con loro».

Anche questa è la Cina di Xi Jinping. Che attualmente tiene in carcere oltre 300 avvocati, personale legale ed attivisti associati; che censura internet, mette il bavaglio alla stampa non di regime e tiene sotto scacco i blogger.

A giugno dell’anno scorso è stata introdotta una controversa legge sulla cybersecurity che controlla in modo ancora più stringente le app e i blog.

«In Cina – scrive il portavoce di Amnesty International Riccardo Noury – il governo ha continuato ad applicare, con il pretesto della sicurezza nazionale, leggi liberticide. Il leggendario attivista Liu Xiaobo, premio Nobel per la pace, è morto, malato di cancro e senza cure mediche, dopo anni di prigione per aver espresso pacificamente critiche al proprio governo».

Wang Quanzhang invece è stato prelevato dalla polizia municipale di Tianjin a gennaio 2016 ed è in carcere con l’accusa di “sovversione del potere statale”. Quel che è peggio è che non gli è stato ancora concesso di incontrare dei legali o dei famigliari e il suo è un caso sospeso nel limbo, non ancora sottoposto al giudizio di un tribunale.

La Reuters parla di misure di soft detention per quanto riguarda l’intimidazione dei famigliari degli attivisti che vengono praticamente “invitati” a piegare la testa di fronte alle decisioni prese dagli organismi statali. Anche Liu Xia, moglie del Nobel Liu Xiaobo, è tra le vittime del soft power.

E come lei centinaia di famigliari che non s’arrendono di fronte alla censura e alla violenza di regime. Amnesty entra nel dettaglio: «A novembre 2017 lo scrittore e critico del governo Yang Tongyan, che aveva passato metà della sua vita in prigione, è morto subito dopo essere stato scarcerato su richiesta del medico. Tra i 250 individui nel mirino delle autorità o in carcere in seguito al giro di vite sui diritti umani, nove sono accusati di “sovvertire il potere statale”».

Ma le cose per i dissenzienti adesso si complicano ulteriormente con la permanenza del presidente al potere.

Dall’11 marzo scorso, grazie al voto dell’Assemblea Nazionale del Popolo che ha raccolto l’indicazione del Partito (voluta da Xi), infatti, non esiste più il limite del doppio mandato per il presidente.

Questo significa che l’Assemblea ha cambiato la Costituzione, togliendo il limite dei dieci anni per la massima carica. Per cui Xi Jinping è potenzialmente rieleggibile all’infinito. C’è chi sostiene che sia una mossa del leader per evitare di far la fine dei suoi predecessori, da lui epurati. «In questi anni il presidente ha epurato e incarcerato molti potenti nemici: il potere eterno dunque, visto come l’unico modo per impedire ai rivali vendicativi di condannarlo a un destino simile», scrive il sito di Tpi.

Alessandra Spalletta fa notare che «oltre ad avere il triplice ruolo di presidente della Repubblica Popolare Cinese, segretario generale del Partito e presidente della Commissione Militare Centrale, da ottobre 2016 Xi detiene la carica di “nucleo della leadership”, o “core leader”, e alla fine del 19esimo Congresso del Pcc ha visto il suo contributo ideologico, legato al suo nome, iscritto nello statuto del Partito: una mossa che lo ha posto sullo stesso livello di Mao Zedong e di Deng Xiaoping».

Eppure forse la nostra confusione europea deriva dal non sapere interpretare correttamente il doppio standard di Pechino: crescita e apertura verso l’esterno, progressiva chiusura interna. Immaginiamo che la rispettosa diplomazia di Xi comporti anche maggiore libertà.

Ma è vero il contrario: per realizzare il suo piano egemonico e mettere in atto il progetto imperiale della “Nuova via della seta”, la Cina ha bisogno di essere sempre più autoritaria e statalista al suo interno. Non c’è contraddizione.

«Nello stesso momento Xi cerca di pompare a livello globale l’immagine di una Cina moderna – scrive l’Economist – proiettata verso l’esterno e responsabile, ma il sistema politico cinese diventa sempre più premoderno, opaco ed infido».

E ancora: «Anziché evitare una concentrazione di poteri, il presidente ha fatto di se stesso “il capo di ogni cosa”. Anziché separare il Partito dallo Stato, ha iniettato il controllo del Partito anche in quelle zone dello Stato che erano relativamente libere, come le compagnie private».

In realtà, dicono diversi esperti, c’è poco da meravigliarsi: la Cina non è mai stata una democrazia, sebbene la sua apertura al mercato abbia tratto in inganno molti di noi.

E non è neppure un’economia di mercato, laddove il Partito comunista al potere pianifica target ed obiettivi economici di medio e lungo periodo, formulando progetti strategici di portata quasi universale.

Il più importante è senza dubbio quello del progressivo e incalzante sviluppo di due rotte: una terrestre e una marittima, nell’ambito della cornice “imperiale” della Nuova via della seta. Si tratta di un progetto infrastrutturale, commerciale e anche diplomatico.

La rotta terrestre attraverserebbe tutta la Cina da Est a Ovest per raggiungere l’Europa. Quella marittima, grazie ad un sistema di porti e ponti, attraverserebbe lo
E’ evidente che nulla è lasciato al caso in questo scenario (solo accidentalmente chiamato economico) che è in realtà molto di più di ciò che appare: il determinismo col quale vengono lanciate le campagne di conquista di nuovi mercati e Paesi è così circoscritto, mirato e frutto di strategie statalmente orientate, da non poter avere rivali né concorrenti.

Tutte le grandi economie di mercato al mondo procedono per interessi privati random, necessariamente al di fuori delle logiche dei grandi imperi (o delle grandi autarchie) che pianificavano le conquiste tracciando su una mappa il percorso di espansione.

La Cina fa esattamente questo: ricalca le politiche imperiali mobilitando tutto l’apparato statale comunista nel raggiungimento di obiettivi graduali ma ambiziosi. E così facendo vince. Non si tratta del capriccio di un sovrano, né della grandeur di un regime: è la macchina che lavora anno dopo anno in silenzio alla costruzione di un sogno. Poiché nessuno è escluso e il contributo di ognuno è prezioso, tutti devono partecipare alla costruzione del sogno.

Ecco perché gli avvocati “scomodi” e i blogger impertinenti sono fagocitati dal sistema: perché intralciano il sogno.

«Noi conosciamo l’imperialismo di tipo romano (o americano, o europeo) – scriveva Francoise Julienne su Aspenia qualche anno fa – : si sbarca, si conquista, si stermina, poi si cominciano a costruire strade, scuole e ospedali. Tuttavia non è detto che sappiamo leggere un’altra forma d’imperialismo: più discreto, basato non sull’occupazione territoriale bensì sull’esercizio della propria influenza».

«L’errore che facciamo spesso – dice l’analista e sinologo Martin Ott del Wilson Center di Washington, da noi raggiunto telefonicamente – è quello di considerare la Cina una democrazia solo perché è nel mercato. Dei meccanismi democratici come siamo abituati a concepirli in Occidente, la Cina non li ha mai avuti.

Anche quando c’era il doppio mandato, tutto era sotto controllo del Partito comunista cinese: lo stesso Jinping è arrivato al potere per via di un’operazione interna al Partito. Il primo passo per noi occidentali è realizzare che la Cina è un concorrente molto diverso che compete sul mercato come Stato, non come privato». Una peculiarità che non ha eguali.

Infine ancora l’Economist argomenta: speravamo che l’integrazione economica avrebbe incoraggiato la Cina ad evolvere verso una economia di mercato e pensavamo che diventando più ricchi i cinesi avrebbero chiesto anche più democrazia. Così non è stato.

«Era una interpretazione legittima questa, che anche il nostro giornale ha condiviso – scrive l’Economist – eppure la Cina si è arricchita oltre ogni immaginazione» e la richiesta di riforme non è cresciuta con essa. La pretesa di libertà non è ancora uscita fuori dalla gabbia di quella ristretta “élite” di dissenzienti.

O forse è stata schiacciata dalla propaganda prima del tempo.

«Oggi quell’illusione si è frantumata: Mr Xi ha portato la politica e l’economia verso la repressione, il controllo statale e perfino verso il conflitto».

L’Occidente dovrà prendere seriamente in considerazione questo epilogo e anche iniziare a sostenere seriamente i difensori dei diritti umani in Cina, perché stare dalla loro parte, significa anche sostenere chi, in altre zone del mondo, già subisce e in futuro subirà i contraccolpi di un espansionismo orientato quasi esclusivamente al risultato economico e commerciale.

Perché non è affatto detto che per realizzare i sogni si debbano calpestare i diritti.

(L’articolo è stato pubblicato sul numero di giugno di Popoli e Missione).