Fin dalle origini della storia della Chiesa ci sono sempre stati uomini e donne che hanno testimoniato la dimensione della missione, scrivendo nuovi capitoli con la loro opera.

Andando indietro nei secoli, riscopriamo che in alcune epoche questa dinamicità è stata particolarmente profetica e significativa.

Apriamo insieme a don Giuseppe Pizzoli, direttore di Missio, il grande libro della missione per leggerne insieme alcuni passaggi salienti, soffermandoci sui protagonisti di esperienze significative dell’annuncio del Vangelo.

Cercando di scoprire il segreto della loro eccezionale vitalità che li ha spinti ad affrontare sentieri sconosciuti, viaggi sfiancanti, traversate di mari e oceani, guerre e malattie.

Superando gli ostacoli che impedivano di arrivare sempre più lontano, fino a portare il Vangelo a popoli di cui, nel loro tempo si ignoravano lingue e costumi.

Ritrovare la giovinezza dei pionieri della globalizzazione del Vangelo significa ascoltare il respiro della Chiesa “in uscita” di cui oggi parla papa Francesco. Ma anche incontrare personaggi che non finiscono di stupirci per la loro attualità.

«Le grandi figure di pionieri ci ricordano che la missione è passione per Gesù e allo stesso momento passione per l’uomo», spiega don Pizzoli che, con la sua esperienza di fidei donum in Brasile prima e in Guinea Bissau dopo, ci accompagna in un veloce viaggio attraverso il cammino compiuto dall’evangelizzazione grazie alle gambe – ma soprattutto al cuore – di tante generazioni di missionari e missionarie.

Fin dalle origini della Chiesa, spiega don Pizzoli «appare un dinamismo missionario estremamente forte con la figura di San Paolo che intuisce che il Vangelo può essere annunciato anche al di fuori del mondo di tradizione ebraica e giudaica. Porta così l’annuncio in tutto il Medio Oriente e anche a Roma, in quella che era la capitale dell’impero dell’epoca».

L’avventurosa era delle scoperte

Ci soffermiamo poi in un secondo grande periodo che inizia dopo l’Editto di Costantino, quando la Chiesa diventa istituzione, e continua nel Medioevo, quando tutta la regione europea è diventata area di cristianità. Il dinamismo missionario sembra cambiare forma, camminando sui passi dei monaci che attraversavano a piedi l’Europa lungo i cammini della fede.

Poi dal XIV al XVI secolo si passa ad «una fase molto intensa che ha coinciso con quella che chiamiamo “era delle scoperte” di nuovi continenti e culture», continua il direttore di Missio.

«Un periodo di grandi spostamenti geografici legati alle esplorazioni, diciamo così per rispetto dei popoli che sono stati “scoperti” anche se vivevano su quelle terre già prima dell’arrivo degli europei.

I viaggi si dirigono alla scoperta delle coste dell’Africa per il passaggio verso le Indie; oppure solcano gli oceani per la circumnavigazione del globo imbattendosi nelle Americhe. In queste grandi esplorazioni la Chiesa ha visto una chiamata a rinvigorire il dinamismo missionario.

Qui incontriamo i grandi missionari che si dirigono ai quattro angoli del mondo allora conosciuto, soprattutto Gesuiti, Benedettini, Francescani. Emergono personaggi come san Francesco Saverio (1506-1552), che apre la strada verso l’estremo Oriente; Matteo Ricci (1552-1610) per l’Impero celeste, Roberto De Nobili (1577-1656), anch’egli gesuita, per l’India, il beato Josè de Anchieta (1534-1597) chiamato “l’apostolo del Brasile”.

In questo periodo l’Africa è stata toccata dai missionari solo nelle zone delle coste, dove approdavano i viaggi degli esploratori accompagnati dagli assistenti spirituali. In questa fase non c’è stata una azione missionaria vera e propria, l’evangelizzazione delle popolazioni locali comincia nel XIX secolo».

I profeti dell’era moderna

Possiamo collocare un terzo periodo a cavallo del XVIII e XIX secolo, quando emergono i grandi profeti della missione di epoca moderna. Sono i fondatori degli Istituti con carisma missionario (Consolata, Comboniani, Saveriani) che hanno dato alla Chiesa un nuovo slancio nell’annuncio incarnato nelle culture locali, anticipando il concetto di quella che sarebbe poi stata l’inculturazione.

Protagonista emblematico di questa stagione è Daniele Comboni (1831-1881), che si è inoltrato nel continente africano superando il Sahara, dove sulle carte c’era scritto Hic sunt leones e risalendo fino alle sorgenti del Nilo fino al Sud Sudan.

«Un pioniere, il primo vescovo dell’Africa nera – continua don Pizzoli-. I missionari partivano senza sapere quasi nulla di dove stavano andando. Affrontavano viaggi in cui si poteva anche morire. Chi partiva per mete lontane salutava i parenti come se non dovesse vederli mai più, i contatti erano rarissimi, le lettere arrivavano dopo molti mesi.

Ma è stata una grande stagione in cui i fermenti di rinnovamento hanno portato al Concilio con cui si apre una quarta fase della storia della missione, di cui noi stiamo vivendo i primi passi.

Il dinamismo del Concilio porta ad annunciare e il Vangelo con linguaggio nuovo, attuale. Fino ad arrivare a papa Francesco che oggi ci dice non solo che la Chiesa è per sua natura missionaria, ma che ha bisogno di una conversione generale».

Un mandato da compiere

Guardando al futuro dobbiamo saper valorizzare l’eredità che ci viene dalla storia. Cosa c’è da imparare dalle stagioni passate della storia della missione? La risposta è chiara: «Tanti aspetti, uno su tutti: sentire che l’invito di Gesù a portare il Vangelo fino agli estremi confini della terra è rivolto a noi. Un mandato che è ancora lontano dall’essere realizzato nella vastità della sua portata e ci spinge verso quanti ancora non conoscono Gesù Cristo.

L’importante è saper comunicare la buona novella non con le parole della teologia ma con l’esperienza della vita. Conoscere e inventare linguaggi nuovi è la capacità di immergersi in contesti culturali diversi, entrando in empatia con la mentalità di chi non conosce il Vangelo».

I missionari hanno gambe, braccia ma soprattutto cuore per aprire nuove vie, sono abituati a camminare su strade sterrate, di terra e polvere, non conoscono l’asfalto. Fanno il lavoro grosso di chi apre cammini in mezzo alla foresta. Restano per sempre legati alla terra a cui hanno dedicato la vita.

In ogni missionario c’è dunque un po’ del Dna dei pionieri? «Diciamo che i pionieri missionari sono stati dei grandi appassionati per l’uomo: per l’uomo della Cina, dell’Africa nera, delle tribù ancestrali dell’America Latina, perché quella persona possa ricevere la ricchezza del dono dell’annuncio. I pionieri si appassionano per una fetta dell’umanità.

Nel momento in cui un gruppo di persone accoglie in Vangelo, lì c’è una comunità che diventa Chiesa. E come tale ha bisogno di strutturarsi, è la fase dell’implantatio ecclesiae.

Ora la finalità non è più questa ma la salvezza dell’uomo. La nostra fede ci porta a vivere nella comunità, nella Chiesa. La fede cristiana non è individuale, anche se richiede una adesione personale. Ma la scelta della fede porta alla vita comunitaria.

La finalità della missione non è l’espansione della Chiesa in sé. E’ l’annuncio che suscita comunità».