In Sud Sudan il terreno è sempre minato. Pur vivendo un momento di relativa calma, con «un cessate il fuoco per lo più rispettato», il Paese deve fare i conti con una «pace fragile». La strada è ancora lunga e «gli ostacoli  sono molti». Quasi sette anni di guerra civile, dopo l’indipendenza dal Sudan, hanno stremato un popolo che ancora vive in gran parte nei campi per sfollati e rifugiati delle Nazioni Unite.

«Alcuni ex gruppi armati ribelli, come quello del generale Thomas Cirillo, non credono nella pace e non sono entrati nel nuovo governo di unità nazionale. In questi ultimi mesi, poi, abbiamo sperimentato violenti scontri inter-tribali nella diocesi di Malakal».

A parlarne con noi in questa lunga intervista, nata anche dal confronto con il vescovo di Malakal, monsignor Stephen Nyohdo Ador, è il missionario comboniano Christian Carlassare, nominato di recente vicario generale della diocesi.

Quanto il presidente e i suoi vice hanno seriamente a cuore la pacificazione per il loro popolo? Sta funzionando il power-sharing?

«Bisogna riconoscere il reale impegno del presidente per la formazione del nuovo governo di unità nazionale dove un pò tutti hanno dovuto accettare dei compromessi: il più grosso è stato quello di ritornare ai 10 Stati (quelli del 2013 prima del conflitto), pur aggiungendo tre aree amministrative. Per questo molte persone al potere hanno dovuto accettare di rimanere senza lavoro, e molte comunità che si erano viste riconosciuta una certa autonomia ritornare a lavorare insieme alle vicine comunità. La divisione dei poteri, il cosiddetto power sharing, non è completo: dopo aver nominato i governatori di nove Stati su dieci e delle tre aree amministrative, in questi giorni stiamo verificando l’impasse del governo sulla nomina del governatore dello Stato dell’Alto Nilo, Stato la cui capitale è proprio Malakal. ».

Il Paese ha un proprio esercito?

«La formazione di un esercito nazionale unico è ancora lontana da venire. I diversi gruppi sono ancora nei loro campi e non è facile integrarli. Questa condizione è causa di incertezza per la popolazione e quindi i due milioni di rifugiati non sanno se ritornare a casa o restare nei campi di accoglienza. Al momento i 400mila sfollati interni che vivono nei campi preferiscono rimanere sotto la protezione ONU piuttosto che ritornare nei propri villaggi».

E’ stato formato un nuovo Parlamento?

«Nonostante gli accordi, il precedente Parlamento non si è ancora sciolto per formarne uno nuovo, composto dai rappresentanti dei tre gruppi che hanno firmato l’accordo di pace: Splm, l’altro Splm all’opposizione, e il South Sudan Opposition Alliance. Questo ritardo fa pensare che il Parlamento non sia davvero operativo e che non gli sia permesso di compiere l’azione legislativa che favorisce la pacificazione del Paese».

Ci sono gruppi che remano contro la pacificazione?

«Ci sono ancora gruppi di opposizione, come quello del generale Thomas Cirillo, che, pur avendo accettato il cessate al fuoco, non credono nell’accordo di pace e non sono entrati nel governo. Rimangono arroccati con le loro forze e, in alcuni casi sono stati attaccati dai militari del governo come in Lirya e Lobonok a Sud della capitale, in aree ricche di oro».

Ci sono reazioni violente anche all’interno delle tribù?

«La violenza è purtroppo molto diffusa. Soprattutto, esistono report di Ong che testimoniano aggressioni ai civili da parte di gente in divisa militare, comprese gravi violazioni e violenze sessuali. Inoltre, nultimi mesi abbiamo saputo di violenti scontri intertribali nello stato del Jonglei, parte della nostra diocesi di Malakal. Tutto è cominciato con gli spostamenti di una tribù seminomade, i Murle, nei territori Nuer e Dinka, seguiti da furti di bestiame, rapimenti di bambini, uccisioni e villaggi bruciati. In queste situazioni, le comunità Dinka e Nuer sono molto orientate alla vendetta e si sono formati gruppi di giovani che sono entrati nei territori Murle per fare altrettanto».

Il Covid ha aggiunto povertà a precarietà. Quanto ha inciso sulla vita della gente?  

«L’emergenza Covid non è del tutto risolta in Sud Sudan. Nonostante il numero di contagiati non sia stato così grande come in Europa o in America, comunque rimane un problema che sta incidendo negativamente nella vita del paese e in questo momento così delicato. Dal punto di vista sanitario il paese non era e non è pronto ad affrontare questa epidemia. Il 20 marzo scorso il governo aveva annunciato il lockdown in seguito al primo caso di Covid. L’aeroporto internazionale era stato chiuso come anche le frontiere. Il governo ha annunciato la chiusura delle scuole e dei centri di aggregazione comprese le chiese».

(La foto di apertura è di Paul Jeffrey, al campo ONU per i rifugiati di Malakal).