Passando velocemente sulla strada che mi porta a Caracarai, non riesco a raggiungere con gli occhi l’orizzonte. Fa troppo caldo, nemmeno l’obiettivo posto all’infinito mi dà una certezza di metterlo a fuoco. Immagino, però, che prima o poi ci sarà una radura verde o una piccola foresta che parte rigogliosa. Questo territorio che porta al Sud dello Stato è da tempo desertico e sembrerebbe inabitabile, anche se ho scoperto, che quando meno te l’aspetti, sbuca un villaggio o un raggruppamento di casupole. L’impatto con il Roraima è sempre così. Chi parte per questa zona del Brasile deve mettere in conto che nulla è scontato. E’ grande circa come l’Italia, i suoi quasi 600mila abitanti si concentrano soprattutto nelle città e nella capitale e la popolazione è composta da centinaia di etnie e popoli autoctoni che si disperdono al di là dei confini stretti del Roraima, tutti abitanti di quel grande continente che è l’Amazzonia. Qui ci sono zone che non si possono raggiungere via terra ma solo con un barco o perfino volando con un piper, specie dove vivono gli indios Yanomami. Quante storie si potrebbero incontrare e raccontare in queste terre, ma certamente papa Francesco, avendo già dedicato il Sinodo dei vescovi del 2019 sulla regione Panamazzonica, ci aiuterà a far emergere tutto il bene che da qui è nato e che si sta compiendo, soprattutto sarà l’occasione per mettersi in ascolto e dare voce ai quasi tre milioni di indigeni che qui vivono, da sempre.

Mi fermo solo a un paio d’ore di auto dalla capitale Boa Vista, precisamente a Caracarai, parola india che significa “piccolo falco”, dove ha sede la nuova missione dei fidei donum della diocesi di Padova, iniziata quasi due anni fa. Qui incontro padre Benedetto Maria Zampieri, entusiasta della nuova esperienza che ha intrapreso. Racconta: «I primi mesi sono stati importanti per conoscere il territorio e le varie zone pastorali. Mi sono messo a disposizione, non avendo ancora iniziato ufficialmente la missione, e ho raggiunto quelle aree scoperte da un servizio religioso, per esempio tutta l’area Nord, nel Comune di Normandia e nel Comune di Uiramutan. E’ stata un’immersione iniziale direi necessaria. Scoprire i vari volti di queste comunità mi ha indotto a stabilirmi nella mia nuova realtà di Caracarai e Iracema, i due municipi dove si dispiega tutta la nostra zona pastorale. Con quasi 35mila abitanti, la sua estensione è tre volte il Veneto, un territorio per la maggior parte occupato dalla Foresta Amazzonica, che pastoralmente si suddivide in tre grandi aree: città, comunità rurali e riberine».

Padre Benedetto, lasciando la tua bella parrocchia nella periferia di Padova, avevi chiaro chi erano i tuoi nuovi parrocchiani. Ora qual è il volto della tua gente?

«La maggior parte delle persone proviene da migrazioni dalle regioni semiaride del Brasile, come il Maranão e la Cearà. Si tratta principalmente di famiglie di agricoltori e mezzadri, che emigrano qui per l’incentivo di un lotto di terra che lo Stato promette loro. Purtroppo la presenza dei grandi fazenderos rende la vita sempre più difficile al piccolo produttore familiare. Su questo fronte la diocesi si muove con l’ausilio della Pastorale della terra, offre un servizio a livello di assistenza legale nei casi di conflitto, accompagna le famiglie ad avere prospettive di futuro e denuncia i casi di irregolarità. Seguiamo anche le piccole comunità rurali lontane centinaia di chilometri, come Villa Rio Diaz per esempio, dove ci sono cinque famiglie che coltivano agrumeti, banani, manioca. Per la maggior parte il loro lavoro è manuale».

Padre Benedetto, vedo che porti già il famoso anello nero, il tucum, ricavato da una specie di palma dell’Amazzonia. Raccontaci quale è il suo significato.

«Se il crocifisso che ho ricevuto è un segno che mi lega alla Chiesa che mi ha inviato qui, questo anello è invece il segno dell’alleanza con questi popoli. Sento giorno per giorno che stare qui è una scelta, un legame stretto con una storia di Chiesa che da sempre preferisce stare dalla parte degli impoveriti. Qui non si punta sui grandi numeri ma giochi la fede nell’incontro personale e di cuore con persone, famiglie e piccole comunità. Personalmente, ogni tempo è buono per una verifica, non posso stare qui senza il sogno di una fede incarnata e politica, cioè amante della città dell’uomo: i miei ideali sono come le radici, mi sostengono, mi aiutano a incarnarmi e a restare, ad essere prete qui».

Raccontaci del tuo lavoro, soprattutto quando segui le comunità lungo il fiume…

«Visitiamo due volte all’anno le comunità riberine: sono tre comunità grandi con circa un centinaio di persone ciascuna; le altre più piccole sono 12 e comprendono 20-30 persone l’una. L’équipe che si forma va curata periodicamente con un percorso di formazione, ed è composta da una decina di persone provenienti da tutta la diocesi, sia laici che religiosi. L’uscita sul fiume dura dai 30 ai 40 giorni, si dorme nelle amache sulla barca; a volte, dove è possibile, veniamo ospitati. Prima di tutto incontriamo il coordinatore di comunità e si definisce un programma a seconda delle necessità. La nostra opera è principalmente la visita alle famiglie e la formazione per battesimi e sacramenti. Le difficoltà sono legate all’isolamento e alla mancanza di strutture sociali di appoggio; spesso incontriamo l’assenza della tutela dei diritti delle categorie più fragili; sono frequenti i casi di violenza legati all’alcolismo ed è preoccupante il traffico umano di minori e la violenze sulle donne».

Raccontavi che ci sono circa 60 denominazioni di diverse chiese nella città di Caracarai, che conta circa 20mila abitanti. Nelle comunità di fiume com’è la situazione?

«Gli evangelici e le Chiese pentecostali sono molto presenti, accettano di buon grado e con cordialità il dialogo con l’équipe missionaria, ma potendo contare su risorse finanziarie e personale, possono mettere radici, anche in fretta. Nasce comunque l’esigenza di ripensare a questa missione, c’è necessità di una stabilitas loci per accompagnare, vivere e non solo assistere sacramentalmente. Voler bene concretamente significa fermarsi, passare del tempo, entrare nella vita della comunità. La gente ha un carattere semplice, molto silenzioso, quasi riservato: difficilmente assumono incarichi, non hanno istruzione. E’ una sfida che non ci fa paura».

Il tempo scorre inesorabile, eppure padre Zampieri, si racconta in modo affabile, quasi progettando le prossime azioni pastorali. Che bello, quando un sogno ti conquista, quando il Vangelo ti ha già pagato, e si vive solo per il dono gratuito di se stessi in modo totale. Il viaggio in barca aiuta ad entrare nel ritmo del grande fiume, i tempi lunghi sono una spinta alla contemplazione, alla preghiera. La vita che si svolgeva a Nazareth e la spiritualità di Charles de Foucauld mi aiutano ad essere una presenza non eclatante ma significativa.

Ma quali sono i problemi emergenti che la comunità deve affrontare?

«Stiamo imparando ad essere una Chiesa senza privilegi da difendere, e dunque una Chiesa determinata nel creare una coscienza critica rispetto ai diritti dei popoli originari e nella custodia del Creato. L’enciclica Laudato Si’ ci aiuta ad analizzare i problemi dal lato giusto. Per esempio c’è il problema della possibile costruzione di una nuova centrale idroelettrica. Se si realizzasse, quest’opera porterebbe con sé delle conseguenze catastrofiche ambientali e umane, poiché il Rio Branco diventerebbe un lago, sommergendo le comunità del Nord e togliendo la vita fluviale all’uomo e alla biodiversità. Noi missionari siamo impegnati a formare nella gente autoctona una coscienza critica e a far presente gli effetti conseguenti a queste costruzioni, troppo spesso taciuti da chi ha interessi».

Un abbraccio silenzioso e carico di vita chiude la nostra chiacchierata. Il mio viaggio non termina qui perché le domande che mi porto appresso sono molte. Certamente attenderò un altro incontro e un’altra storia da raccontare, perché la Chiesa è questa: tessere di un mosaico infinito, come infinita è la misericordia e la grazia di Dio.