La legge sulla sicurezza nazionale, appena varata da Pechino ed imposta ai cittadini di Hong Kong, rappresenta «la fine del libero pensiero». Nella regione amministrativa speciale cinese (status, questo, che resterà in vigore fino al 2047) «la libertà di pensiero è già saltata».

L’enclave cinese ha goduto finora di una relativa autonomia grazie al principio ‘un Paese, due sistemi’ (da quando è tornata alla Cina nel 1997), ma oggi con la pressione esercitata da Pechino, poi sfociata nell’attuale legge sulla ‘sicurezza nazionale’, è di fatto passata entro l’orbita di un regime di controllo totale.

A spiegarcelo al telefono da Hong Kong è una fonte che preferisce rimanere anonima e che parla anche delle possibili ripercussioni di questi provvedimenti sull’autonomia della Chiesa. Da ora in poi sarà perseguibile di reato anche la semplice espressione del dissenso o l’incoraggiamento alla critica. Va da sè che tutti sono passibili di ‘reato’ in questa ottica.

«Non c’è ancora una ripercussione immediata di tutto questo sulla Chiesa cattolica, ma una paura diffusa certamente sì», dice.

Questa legge (in particolare l’art. 21 che punisce anche chi incita indirettamente alla ribellione) mette il bavaglio a dei liberi cittadini di una regione che finora ha goduto i vantaggi di una Common Law di stampo britannico.

Ed è anche la ragione per cui lo scorso anno, per via di un’altra proposta di legge, sono iniziate manifestazioni di protesta tramite un movimento spontaneo e pacifico.

L’estate scorsa a scendere  in piazza furono a più riprese i comuni cittadini che si opponevano alla legge sull’estradizione in Cina, proposta dalla governatrice di Hong Kong, Carrie Lam. Quella legge venne poi accantonata in favore di quest’altra ben peggiore, e diretta emanazione della volontà cinese.