La mia prima esperienza di missione l’ho vissuta nel 2015, con un gruppo di giovani della mia parrocchia. L’idea di partire mi affascinava da tempo, e nel momento in cui ho deciso di partire, son cominciati i “viaggi mentali” rispetto a quello che avrei fatto o cos’avrei potuto fare, come avrei potuto rendermi utile, a cosa sarebbe cambiato col mio arrivo, cos’avrei lasciato partendo. Mi concentravo più sul “fare” che sull’incontrare.

Quella prima volta, è stata l’esperienza d’incontro più bella che io fossi mai riuscita a vivere nella mia vita. L’incontro con una realtà opposta rispetto a quella che sono abituata a vivere. L’incontro con dei giovani, che in condizioni differenti, rincorrono i nostri stessi sogni. La necessità d’inventarsi modalità stravaganti per poter comunicare. La possibilità di visitare i villaggi, le case, le famiglie e commuoversi.

Piangere e ridere… quante volte è successo sentirsi toccare nel profondo ed emozionarsi per le piccole cose?

La missione obbliga a toccare noi stessi, a percepire i nostri limiti e scoprire che l’incontro con l’altro è una possibilità. È ritrovarsi in quella profondità umana che ti fa sentire incapace, impotente ma allo stesso modo ti dà la forza per vivere col cuore e fa nascere in noi il desiderio di ricerca del bene.

La missione porta alla luce tutto ciò che è bene, insegna a dargli un nome, e spesso interroga sulla vita. Chi ci parla della vita sono proprio le persone che andiamo ad incontrare, le strette di mano, i sorrisi dei bambini, l’accoglienza, le attese, l’ascolto, gli sguardi.

Vivere in un Paese africano è una scelta d’amore, che comporta anche un pizzico di follia. Tornare in Mozambico mi carica, è il mio polmone, ogni volta sembra che tutto intorno a me e dentro di me ricominci ad avere un senso. E il senso più profondo di tutto questo è la presenza di Dio, che si fa forte e ben visibile nelle persone che incontro. Si, perché tutto parte da Lui e quando i segni sono chiari anche la vita assume un significato bello, intenso, pieno.

In Mozambico sono tornata altre due volte: una nel 2017 per due mesi da sola e l’altra nel 2018 insieme a don Oscar, sacerdote del mio oratorio, e ad altri giovani.

Insieme a lui abbiamo deciso di proporre il viaggio ad alcuni ragazzi della parrocchia ai quali si sono aggiunti alcuni amici del Nuovi Stili di viaggio e i miei genitori, che hanno deciso di seguirmi.

Nella foto insieme a me c’è Awa, la bambina di un’amica. L’ho scattata proprio nel 2018.  Era il nostro primo incontro, quando lei è nata io ero in Italia.

Mi ha guardata, con quegli occhioni e poi ha cominciato a toccarmi. Si sporgeva dalle braccia di sua mamma finché non l’ho presa in braccio. Ha sorriso, in quel modo riusciva meglio nella sua impresa. Così piccola e così curiosa, sembrava non esistesse nulla attorno a lei, in quel momento la sua attenzione era rivolta solo a me. Incontrarsi è lasciarsi trasportare nella vita di chi abbiamo di fronte, è guardarsi, entrare in profondità, conoscersi, notare le differenze ma partire proprio da questo “diverso” per riscoprirsi nuovi e più ricchi.

Quello che mi sento di dire ad un giovane che ha il desiderio di partire è: non pensarci due volte… VAI! Il modo c’è, le possibilità si creano, talvolta sembra tutto complicato ancor prima di cominciare a pensare al “come fare”, poi corre tutto veloce. È “il come andare” che fa la differenza.

Consiglio di appoggiarsi ad una realtà vicina, al Centro Missionario della tua Diocesi o ad un Istituto Missionario. Io, ad esempio, da un paio d’anni collaboro col Centro Missionario Diocesano della diocesi di Brescia nel percorso di formazione “Giovani in Missione, Nuovi Stili d viaggio” che accompagna i giovani nel cammino di preparazione all’esperienza.

Camminare con qualcuno che ha i tuoi stessi desideri, incontrare persone che l’hanno già vissuta, ascoltare e lasciarsi ascoltare, fa bene e ti dà una mano a prepararti per vivere intensamente l’esperienza e il tuo rientro a casa. Sì, perché ciò che incontri poi ti resta per la vita.

Beatrice Maccagnola