Nella Repubblica Centrafricana, da anni in balia di una guerra spietata tra milizie armate (Seleka e anti-balaka), violenza, abusi e morte sono ancora all’ordine del giorno. L’ultimo dei fatti di cronaca risale alla notte tra l’8 e il 9 aprile, quando un campo base della Minusca (Caschi Blu delle Nazioni Unite) è stato attaccato a Bangui. Un soldato senegalese ha perso la vita.

Ma la realtà è che la popolazione non si sente al sicuro neanche sotto protezione Onu. La fiducia verso i Caschi Blu è ai minimi storici.

A raccontarcelo al telefono da Berberati, nord-est del Paese, è suor Elvira Tutolo, dell’ordine della Carità di Santa Giovanna Antida Thouret.

«La settimana scorsa un soldato dei Caschi blu è stato avvistato da un ragazzino mentre portava armi con ogni probabilità ad un gruppo ribelle degli ex Seleka – spiega la missionaria a Popoli e Missione on-line – Molti di questi giovani del contingente Onu che dovrebbero proteggere la popolazione, poiché ancora non è stato rimesso in sesto l’ esercito, non lo fanno, sono dei mercenari».

Suor Elvira parla di soldati Onu spesso reclutati nei Paesi limitrofi, Repubblica Democratica del Congo e Rwanda, con pochissima esperienza professionale.

Inoltre il Paese è ricco di miniere di diamanti e d’oro e i soldati , «compresi i francesi»- dice-  non esitano ad accaparrarsene.

Un recente reportage, pubblicato dal Pulitzer Center, chiama il Centrafrica “l’Eden sotto embargo”.

«Ma la piaga è soprattutto il virus della vendetta e della ritorsione tra gruppi in antagonismo», spiega la missionaria.

La religiosa vive e lavora nel capoluogo della Prefettura di Mambéré-Kadéï da anni,  in una delle zone tutto sommato pacificate: «eppure nell’80% del Paese ancora si spara e ci sono tensioni forti tra le due fazioni armate», spiega.

La milizia ex Seleka (ufficialmente sciolta) avrebbe tenuto una sorta di congresso tra leader di recente, con l’intenzione di tornare ad imporsi nella capitale Bangui.

«Quel che è peggio – ci spiega Elvira Tutolo – è che i combattenti sia dei Seleka (milizie di matrice musulmana) che degli anti-balaka (che si definiscono cristiani) continuano a reclutare i bambini.

I soldati di entrambi i gruppi sono davvero piccoli: i bambini-soldato vanno dagli 8-9 anni fino ai 17». Un altro fenomeno aberrante è quello di intere famiglie che gravitano nei gruppi armati: «sono combattenti delle milizie, anche molto giovani, che si accoppiano con ragazzine e fanno figli. Alcuni di loro, non tutti, rimangono insieme e così nelle milizie aumenta il numero delle famiglie-soldato».

Il progetto missionario di suor Elvira ha salvato la vita a tanti ragazzini sottratti alle milizie armate: la casa-famiglia Kizito di Berberati, per gli ex bambini-soldato e ragazzi di strada (attualmente 130 ospiti). La casa non è un orfanotrofio ed è gestita da coppie di genitori che “adottano” i bambini.

«Noi missionari siamo riusciti in un certo senso ad ottenere la fiducia dei capi degli anti-balaka – dice – che ci rispettano: uno di loro ad esempio mi ha raccontato l’altro giorno che avrebbe fatto i vaccini ai ragazzini che gravitano nel suo gruppo. Ma il vaccino significa una cosa sola: che vogliono farli combattere ancora o comunque tenerli dentro la milizia».

Sembra infatti che i leader di questi gruppi criminali operino una sorta di rito magico, con la credenza che infilare un ago sottopelle ai piccoli combattenti, li renda invulnerabili.

Ma chi rifornisce di armi questi soldati? «Le armi arrivano dal Sudan e dal Ciad soprattutto», dice Elvira.

L’orrore del Centrafrica, dice la suora, sta proprio nella routine della violenza quotidiana, in una guerra strisciante che porta insicurezza, paura e abuso.

«Le prime vittime naturalmente sono donne e bambini: c’è una folla di madri-bambine, credetemi! E il tasso di Aids è altissimo».

La guerra è iniziata in Centrafrica nel dicembre 2012 ed è ancora in corso, sebbene oggi si dica a bassa intensità: quell’anno i ribelli Seleka hanno attaccato le forze governative e conquistato varie postazioni. Ai Seleka si sono poi contrapposti gli Anti-Balaka.

Foto AFP/Marco Longari