La testimonianza di Gregoire Ahongbonon, l’uomo che cura gli ammalati di mente che le famiglie rifiutano in Benin è stata al centro della seconda giornata del Forum di Sacrofano. L’umanità e la fede di Gregoire, il coraggio e la tenacia emergono con forza anche da questa intervista rilasciata a Popoli e Missione nel luglio 2017.

 

La premessa è che nulla di ciò che fa è frutto del suo potere personale. «Cela me dépasse», ripete. «Tutto questo travalica la mia persona». Perché viene da Dio. Sorride mentre ricorda gli esordi della missione con gli ammalati di mente in Africa, tra Benin, Togo, Costa d’Avorio e Burkina Faso. Gregoire Ahongbonon, 64 anni, del Benin, occhi intensi, mani forti e callose, è l’uomo che sussurrava agli ammalati. E li guariva. Anzi, li guarisce tutt’ora. Il segreto non c’è. La terapia è restare umani. Medici e pazienti. Sono gli ammalati che l’Africa rifiuta: «Persone affette da schizofrenia o bipolarismo, depressione o disturbi della personalità. Considerate possedute dalle forze demoniache – ci spiega lui che andiamo a trovare a Roma nella casa dei missionari SMA- e perciò emarginate». Trattate come bestie. «Una volta vedemmo una donna inchiodata mani e piedi al terreno come Cristo in croce…». Gregoire fa una pausa. Strizza gli occhi e sospira. Poi ci mostra le foto che conserva nel telefonino. La donna è legata con una catena che somiglia a quelle usate 200 anni fa per gli schiavi africani catturati come bestie. Gregoire una catena del genere la porta sempre con sé. Per gli scettici. E la tira fuori da una sua valigetta nera. Ce la mostra. «Le famiglie hanno paura di questi malati: li legano, li nascondono, li maltrattano, se ne vergognano. Li tengono nei campi, non in casa». Il suo sgomento tradisce un’empatia straordinaria. Ex gommista povero, uomo del popolo come tanti, oggi è famoso in Europa, Canada e Stati Uniti. Porta la sua storia nelle scuole, nelle parrocchie, negli ospedali. Ha vinto premi, incontrato scienziati. E’ stato chiamato in audizione all’Organizzazione Mondiale della Sanità. Gregoire nasce a Ketoukpe, un piccolo villaggio del Benin al confine con la Nigeria, il 10 gennaio 1953, da una famiglia di contadini. Nel 1971 emigra in Costa d’Avorio dove va a riparare pneumatici. Conosce fortuna e miseria. Ben presto scopre che il suo dono è riuscire a “comunicare” sottilmente con gli ammalati, ripristinando piano piano in loro il senso dell’umano. La prima cosa che fa è abbracciarli e sussurrare parole rassicuranti. «Poi li lavo, li vesto. Do loro un piatto caldo da mangiare». Più volte ripete: «Non sono un guaritore e non sono neanche un medico. Non ho mai studiato medicina». E allora cos’è? «Se ci sono riuscito è solo perché ho intravisto in loro Gesù Cristo. E’ Dio che agisce in me e io in loro». Racconta di essere precipitato nella miseria più nera molti anni fa: «Ho perduto tutto e a quel punto ho pensato addirittura di suicidarmi. Avevo 27 anni, è stata una durissima prova per me». In quegli anni bui persino gli amici si allontanano da lui. Alcuni sacerdoti di sette cristiane lo avvicinano: «Ma io ero cattolico e per me la religione non è una camicia che si può cambiare come se niente fosse», assicura. «Allora ho condiviso le mie preoccupazioni con mia moglie. Abbiamo creato un gruppo di preghiera». Anziché pensare ai suoi guai, Gregoire comincia ad occuparsi dei guai degli altri. O meglio, si concentra sull’ascolto. «Visitavamo gli ammalati e pregavamo con loro. Erano lasciati a se stessi, senza alcun trattamento. Non c’è sicurezza sociale in Africa». Confessa: «Anch’io all’inizio avevo paura. Ma a forza di guardarli ho capito che è Gesù stesso che soffre. Così ho iniziato a incontrarli. Io e mia moglie cucinavamo in casa e portavamo loro acqua e cibo». Piano piano trovano una sede, che inizialmente è la bouvette di un ospedale. Spesso sono i parenti stessi a chiamarli: «Ricordo una donna ammalata che aveva marito e figli, ma il marito l’aveva ripudiata e lei viveva nei campi, nuda e legata. L’ho lavata, vestita, accolta». Le foto che ci mostra subito dopo sono quelle della stessa donna miracolosamente guarita. E ritornata a casa dopo un periodo di cura presso il Centro che nel frattempo Gregoire riesce ad aprire con l’aiuto della moglie e della Chiesa e che oggi è l’Associazione Saint Camille a Bouaké in Costa d’Avorio, sorta nel 1983.

Ma qual è esattamente il metodo che usa? Lo chiedo allo psichiatra che accompagna Gregoire nel suo viaggio romano. Si chiama Benoit Des Roches ed è canadese. Si tratta di un mix di farmaci, terapia psichiatrica e riabilitazione sociale. I pazienti, cioè, non assumono mai una dose di medicinali tale da renderli sedati, incoscienti o con un basso livello di attenzione e capacità di azione. Tutt’altro. La terapia cruciale è la partecipazione attiva del malato alla gestione del Centro. Addirittura i Centri del Saint Camille sono affidati agli ex pazienti. La loro «riabilitazione è tale e il processo di responsabilizzazione è così elevato, che non esiste più il malato». Ossia, la malattia in alcuni casi è cronica – come la schizofrenia – ma tenuta assolutamente sotto controllo. Gli ex pazienti possono diventare così infermieri, inservienti, volontari e qualche volta direttori del Centro. Una rivoluzione sociale che in Africa ha una valenza enorme. Ma ce l’ha anche per gli standard europei o americani: «Il successo del trattamento nel San Camillo è dell’80% – precisa Benoit – c’è un 20% più difficile da trattare. Ma questo accade in Africa come in Canada o Europa. Una volta che la fase acuta della malattia è sotto controllo, allora gli diamo delle responsabilità proporzionali alla capacità del paziente. L’idea è quella di restituire dignità al paziente e permettergli di gestire il Centro». Lo psichiatra spiega che la schizofrenia di per sé è incurabile ma si può tenere sotto controllo. «La terapia prevede di continuare l’assunzione del farmaco per tutta la vita ma il malato nel Centro del Saint Camille non sarà mai sedato come un drogato». Sarà trattato come un essere umano degno di cure ma anche di stima. Di riconoscimento. E capace di darsi da fare a sua volta per gli altri.

E’ nel 2004 che Gregoire passa dalla Costa d’Avorio al Benin: «Sentivo una voce dentro che mi diceva vai al Nord. Sono arrivato a casa e ho detto a mia moglie: “Io devo partire!”. Ho aperto la portiera della macchina e ho fatto centinaia di chilometri». E così l’attività si è espansa. Oggi i Centri del Saint Camille sono una sessantina in tutta l’Africa della costa orientale. Nel 2007 Gregoire partecipò a numerosi incontri per discutere delle migliori pratiche consolidate nel campo della salute mentale con eminenti psichiatri dell’Università di New York e del Belleview Hospital a New York. Grazie all’azione della Fondazione Saint Camille che raccoglie donazioni a livello internazionale, l’esperienza della Costa d’Avorio è stata presentata nel settembre 2006 alla riunione annuale della Clinton Global Initiative che sostiene progetti umanitari e di sviluppo umano nel mondo.