“Mai nessuno dei miei pazienti mi ha mai chiesto perchè lo faccio: io sono qui affinchè ognuno di loro possa sentirsi amato, perchè le relazioni umane sono la cosa che più conta in missione.

Bello è per me potermi liberare dall’immagine del medico percepito come autorità e sedermi in giardino a giocare con i bambini, creando relazioni con loro e con le tante donne che sono lì, in gran parte musulmane”.

Suor Roberta Pignone è medico missionario in Bangladesh, dove dirige il Damien Hospital di Khulna, unica struttura specializzata nella cura dei malati di lebbra.

Originaria di Monza, missionaria dell’Immacolata dal 2006, è stata tra i testimoni (intervenuta da remoto, in collegamento dal Bangladesh) del secondo appuntamento di Assisi stamani, nell’ambito delle Giornate di Spiritualità Missionaria ‘Artigiani di Speranza’, organizzate dalla Fondazione Missio.

“Mi piace definirmi balsamo per le loro ferite – ha detto ancora suor Roberta – Ma il mio primo approccio con il Bangladesh è stato duro: sono arrivata a 40 anni dalla diocesi di Milano, arrivavo da una Chiesa bella e viva.

Qui ho trovato tanta povertà materiale e spirituale, ma dopo sei mesi è accaduto qualcosa.

Un padre saveriano che era con me in missione, ha avuto un ictus che non è stato curato ed è morto e io nella cappella ricordo di aver detto a Gesù: questo è un Paese molto molto duro, ma aiutami ad amarlo.

E c’è stata una conversione che è avvenuta in me. Adesso ho una certezza: c’è un motivo per cui io sono qui e non posso non essere balsamo per loro”.

In dialogo con lei, assieme al giornalista Paolo Annechini che moderava l’incontro, altri due preziosi testimoni della missione: padre Maurizio Binaghi, comboniano in Kenya e don Gabriele Burani, fidei donum in Amazzonia.

“La mia responsabilità è quella di essere un artigiano di speranza vero, il che vuol dire fare un lavoro di qualità”, ha affermato padre Maurizio.

“Noi missionari siamo chiamati a fare bene il bene, al di là della buona volontà – sono ancora le sue parole – E dobbiamo anche imparare forse a relazionarci alla pari, essere artigiani di speranza oggi è avere l’umiltà di imparare perchè c’è un senso inconscio di superiorità occidentale”.

Padre Maurizio a Nairobi si occupa dei ragazzi che vivono nello slum di Nairobi dove la vita è dura e per resistere alla fame si ricorre spesso a droghe di ogni tipo:

“molti ragazzi qui sniffano di tutto: acqua ragia, acetone, diesel perchè sniffando tolgono lo stimolo della fame ma assieme alla fame anche tutti i freni inibitori saltano”.

Che vivano e operino nell’Amazzonia brasiliana, in una parrocchia lungo il fiume, tra natura spettacolare e traffici di droga, come don Gabriele Burani, oppure nella discarica di Korogocho, come don Maurizio, o ancora in un ospedale per lebbrosi in Asia, questi testimoni parlano di un comun denominatore: la speranza. Essere segni di speranza concreta.

Anche dove non ci sarebbe alcun motivo per sperare.

“Io non credo in un Dio onnipotente, credo in un Dio debole che è vicino ai miei ragazzi che sniffano, un Dio che è lì con me in ogni momento”, ha detto ancora padre Maurizio.

Ognuno di loro è “artigiano di speranza che cuce relazioni”, come dice anche don Gabriele Burani fidei donum in Brasile, da poco rientrato in Italia:

“la parrocchia affidataci è sul fiume ma lungo il fiume non scorre solo acqua ma naviga anche la polverina bianca” che viene contrabbandata da un Paese all’altro.

“Abbiamo quindi pensato a delle proposte per i giovani, per i ragazzi del posto: “sport, scuola di musica, teatro e circo per oltre 300 giovani coinvolti”, racconta.

Le attività sono qualcosa che consente con facilità di creare relazioni umane solide e amicizie che poi faranno la differenza.

L’importante, dicono questi testimoni, è che la Chiesa non sia clericale, e che lasci spazio ai laici, che non si catechizzi ma si possa evangelizzare con il cuore.