La scena è spoglia. Due sedie, un tavolo, un attaccapanni, un lenzuolo. E una valigia con i ricordi di un vita. Quella della beata Irene Stefani, missionaria della Consolata in Africa, è una storia di ordinaria santità raccontata dalla intensa e originale pièce teatrale “Irene” ideata dalla Compagnia teatrale Controsenso appositamente per il Festival della Missione, e rappresentata ieri sera al teatro S. Afra presso l’Oratorio di vicolo dell’Ortaglia con la regia di Massimiliano Grazioli.
Solo due attori in scena- bravissimi- Alberto Branca e Francesca Grisenti a raccontare con semplicità e passione la storia di una ragazzina piena di vita, Mercede Stefani, nata nel 1891 in una famiglia di Anfo nella Val Sabbia, in provincia di Brescia, quinta di 12 figli. La famiglia è segnata da molti lutti: in pochi anni muoiono i fratelli maschi e la madre. Mercede ha solo 13 anni ma è già la mamma delle sue sorelle, del padre rimasto vedovo e solo a condurre la locanda, dei malati e dei poveri del suo paese a cui dedica ogni momento libero della giornata. Per lei era naturale essere così: generosa, infaticabile, piena di una gioia particolare che l’attrice Francesca Grisenti esprime sul palcoscenico con passi di danza.
Così naturale per la giovanissima Stefani dare sempre tutta se stessa agli altri che nel 1911, a soli 20 anni entra nella Congregazione delle suore della Consolata di Torino col nome di Irene, e quattro anni dopo parte come missionaria per il Kenya. <<Chissà come è lontana l’Africa…bisogna attraversare il mare. E chi l’ha mai visto il mare?>> si chiede l’attore Alberto Branca nei panni del padre rimasto solo nella casa di Afro, soffrendo per la partenza dell’adorata figlia. Ed ecco Irene che inizia con entusiasmo la nuova vita: con quel suo visetto giovane e aperto, rimasto come icona delle prime generazioni di missionarie italiane in Africa. Irene impara l’inglese e i dialetti africani, si trova nelle retrovie della prima guerra mondiale a curare i carriers, i portatori di materiale bellico indigeni, portati a morire nell’ospedale di Mombasa. Mancano medicine, assistenza, Irene non ha che se stessa da dare a moribondi che cura con amore di madre. <<Quando si ama veramente non si prova fatica e tutto diventa possibile>> ripete spesso, mantenendo sempre la serenità di una scelta di vita piena e totale.
Dopo la fine della guerra, Irene si sposta nella zona di Gekondi e percorre chilometri a piedi da un villaggio all’altro, consumando i suoi scarponi tra le lezioni scolastiche ai bambini, l’assistenza ai più poveri e soprattutto la cura dei malati. Irene abbraccia l’Africa con le sue povertà, un oceano di bisogni rispetto al laghetto della sua Val di Sabbia natia. Irene non molla, è sempre se stessa, umile e generosa fino alla consunzione di se. Sempre serena e senza mai lamentarsi, muore a 39 anni a Gekondi sfiancata dalla peste che aveva contratto dai malati che non aveva voluto abbandonare. Fino a condividerne la fine. <<E ora che abbiamo finito di raccontare la storia?>> si chiede l’attore in scena. Risponde Francesca Grisenti, chiudendo la piccola valigia dei ricordi: <<Irene era così. Era una che apriva la strada e così concludeva la sua>>. Fuori dal palcoscenico, nella storia della missione Irene Stefani, malgrado la sua umiltà, resta una figura di primo piano: un donna che ha vissuto la frontiera del suo tempo, facendo delle periferie del mondo la sua ultima e definitiva terra. Prima del cielo. Nel 2015, per decreto di papa Francesco, è stata proclamata beata a Nyeri, in Kenya.