In una fascia di terra abitata da più di tre milioni di abitanti, la maggioranza dei quali musulmana, ci sono 900 cattolici, 2 frati cappuccini, 3 preti “fidei donum”: don Giuseppe Ghirelli di Anagni e don Amedeo Cristino, pugliese della diocesi di San Severo, con mons. Antonio Mattiazzo vescovo emerito di Padova, e due comunità di suore. Tutto qui. Eppure in questo contesto riprendono vita e si rianimano le parole del mandato missionario di Gesù: “Andate in tutto il mondo e annunciate il mio Vangelo“. Dal 14 al 20 maggio  ho avuto la possibilità di visitare la Prefettura di Robe, situata in una zona remota a sud dell’Etiopia, a 2.700 metri d’altezza, si estende su un altipiano che confina con la Somalia e il Kenya. Sono stato accompagnato dallo stesso prefetto, Pe. Angelo Antolini, un cappuccino originario delle Marche, in Etiopia da più di trent’anni: una vita dedicata ai poveri dell’Africa e al vangelo. Questa piccolissima esperienza di chiesa cattolica è una presenza che diremmo insignificante, secondo i nostri parametri efficientisti, eppure essa brilla di una luce capace di rischiarare il cammino del popolo Oroma e di dare un piccolo, ma significativo, contributo ai percorsi delle nostre comunità cristiane.

Pe. Angelo così mi presenta il volto della chiesa cattolica presente nella prefettura di Robe:

– E’ una chiesa missionaria. Che fanno questo sparuto migliaio di cattolici immersi e sparpagliati fra quasi quattro milioni di islamici? Si rinchiudono nelle loro briciole di comunità? Si lamentano della loro piccolezza? Si scoraggiano per la loro insignificanza? No! Tutt’altro. Animati ed entusiasti per aver incontrato Gesù, divengono discepoli missionari del Vangelo. Loro, gente fra la loro gente, sono i più patentati annunciatori del Regno. A Robe il vangelo viene annunciato soprattutto dalle persone,  sono i laici delle parrocchie che invitano i loro conoscenti, amici e parenti; e così la fede si trasmette, per via di una sorta di contagio virtuoso.  I mezzi poveri mostrano che la fede si trasmette da testimone e testimone, anche celebrando in una tenda o sotto un albero. La fragilità dei missionari e dei mezzi mostra la loro dipendenza dal Signore; la fiducia nella provvidenza, fa risaltare il tesoro del vangelo.

– E’ una chiesa tutta carismatica. Essere in pochi, spinge lo Spirito a suscitare carismi e inventare ministeri. Chiama tutti e tutte a mettersi al servizio, senza grandi distinzioni fra chierici e laici e, soprattutto senza concentrare tutto nelle mani dei preti. Animatori, catechisti, coordinatori…ognuno dà una mano, come può e come sa. E’ vietato rinchiudersi in sé e incrociare le braccia.

– E’ la chiesa povera e dei poveri. Povera, perché non ha potere, non ha forti organizzazioni, non ha soldi; insignificanti, anche se preziosi, sono i pochi spiccioli che si raccolgono come offerte domenicali…Dei poveri, perché i fedeli e i catecumeni che compongono queste comunità sono poveri e vivono di lavori precari, le donne  si danno da fare in mille modi per poter  dare il pane quotidiano ai loro figli, e alcuni sono persone  che, provengono da situazioni di emarginazione e sfruttamento. “Qualcuno, scrive mons. Antonio, non ha niente, piedi scalzi, nemmeno un paio di sandali. L’indigenza, a volte il freddo e la pioggia non li tengono lontano dagli incontri, anzi, ci incoraggiano a non demordere e continuare”. E don Giuseppe aggiunge: “Un particolare mi colpisce: tra i poveri c’è sempre un più povero e non viene lasciato mai solo! Infatti alla presentazione delle offerte, si è fatta una colletta particolare per una mamma il cui figlio aveva avuto un incidente stradale e aveva dovuto essere ricoverato all’Ospedale di una città vicina”. È sempre la carità che converte: la conversione avviene per amicizia, fiducia e carità. Tutti si sentono accolti, si vogliono bene e si sentono protetti da un Padre che li ama. Per questo ringraziano e vivono in serenità. A chi chiede loro: ‘Perché sei divenuto cristiano?’ Rispondono con il sorriso negli occhi: ‘Perché ho incontrato gente che si ama e che mi ama!’.

Visitando queste comunità mi chiedo: “Ha senso essere prete “fidei donum” inviato missionario in queste terre di prima evangelizzazione? Ha ancora senso per le diocesi italiane la ‘missio ad gentes’, l’inviare cioè preti e laici in terre lontane e non cristiane? E la risposta viene spontanea. Qui il prete ‘fidei donum’ e il missionario, uomo o donna che sia, tengono accesa una piccola fiamma e ricordano a tutte le nostre comunità cristiane e ai tanti preti che abbiamo che: L’attività missionaria rappresenta, ancor oggi, la massima sfida per la Chiesa e la causa missionaria deve essere la prima. Che cosa succederebbe se prendessimo realmente sul serio queste parole? Semplicemente riconosceremmo che l’azione missionaria è il paradigma di ogni opera della Chiesa…Questo compito continua ad essere la fonte delle maggiori gioie per la Chiesa: ‘Vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione” (Lc 15,7)” (Evangelii Gaudium n. 15).

                Oggi, in realtà, la missione ad gentes serve molto più a noi, ed è una grande scuola per le nostre comunità. Essa è la concreta possibilità che ci permette di imparare molto dalla freschezza e dalla essenzialità di queste piccole, germinali comunità, come quella presente nella prefettura di Robe.
Alcuni anni di “fidei donum” di un prete diocesano sono un investimento straordinario che ritorna a vantaggio di una intera diocesi, come pure la testimonianza di un anziano vescovo, che spende le sue ultime energie per la missione, è un dono stupendo per la chiesa italiana.

Il contatto e lo scambio con una chiesa che inizia tiene desto il carisma dell’inizio e ricorda alle nostre chiese più antiche i tratti essenziali della missione: la generosità che si manifesta nell’andare, l’essenzialità nello stile e nei mezzi, la cura per la relazione e per l’umanità concreta, la gioia del vangelo.

Qui, in questo altipiano etiope, la parola “missione”, spesso assopita nei nostri contesti tradizionalmente cristiani oppure relegata alla semplice raccolta missionaria, è una parola viva, forte, piena di fermento: nei racconti di vita e nei volti dei missionari e delle missionarie, nelle loro preoccupazioni e soddisfazioni, nei sorrisi e nella gioia dei nuovi cristiani e delle giovani comunità, essa ci ricorda che la chiesa è per sua natura ‘missionaria’ ed è ‘la missione che fa la chiesa’.

Don Felice Tenero