Sembra tornata un po’ di calma ad Addis Abeba, dove l’insurrezione popolare («sommossa pilotata», secondo gli ambienti missionari) scoppiata il 30 giugno scorso, sta mettendo a rischio l’intero Paese.

Sia nella regione di Oromia che nell’enclave della capitale, i violenti disordini hanno provocato la morte di 167 tra i civili, 12 dei quali ad Addis Abeba, come conferma un report della Croce Rossa Internazionale.

Durante i momenti più concitati della protesta antigovernativa (non ancora del tutto sedata), l’esecutivo etiope, guidato dal premio Nobel per la Pace Abiy Ahmed, ha rafforzato lo stato di emergenza (già avviato per il Covid-19) e sospeso la fornitura di internet; l’intero Paese è rimasto isolato dalla rete fino al 15 luglio.

«L’insurrezione a noi è parsa come un tentativo di destabilizzare il Paese e di estromettere il primo ministro Abiy, che è invece un moderato. Ci siamo svegliati al mattino con un’orda di gente in strada», racconta al telefono padre Sisto Agostini, superiore provinciale dei comboniani, da 15 anni in Etiopia. 

«Solo oggi abbiamo di nuovo la possibilità di collegarci ad internet – aggiunge – ; ma posso dire che abbiamo assistito ad una vera e propria invasione della città, guidata da elementi che appartengono a frange estremiste di un movimento di liberazione Oromo. Hanno potuto contare però sulla rabbia della gente. Il nostro governo non usa come sistema la violenza e dunque non c’è stata una repressione nel sangue delle proteste».

La sommossa è stata motivata dai contestatori (oltre 8mila persone in tutto il Paese, 4mila e 700 delle quali sono state arrestate), come reazione per la morte violenta di un attivista Oromo di 35 anni, noto cantante pop etiope, Haacaaluu Hundeessaa, ucciso in strada il 29 giugno scorso.

L’etnia Oromo è maggioritaria nel Paese (rappresenta il 34,5% della popolazione), ma è stata sempre marginalizzata. Tant’è che nella scelta del nuovo premier Abiy Ahmed nell’aprile del 2018 ha notevolmente inciso il fatto che fosse un esponente di questo gruppo etnico.

«Ahmed fin dall’inizio del suo mandato ha inaugurato un nuovo corso: pacificare le varie etnie e correnti, cercando di non favorirne una a discapito dell’altra, e portando avanti un discorso democratico, ma evidentemente ci sono gruppi molto impazienti», dice padre Agostini.

Il punto, secondo il missionario, è proprio questo: Ahmed è considerato eccessivamente accomodante e moderato dai suoi stessi Oromo. Tanto che gli esponenti più estremi avrebbero approfittato  del dolore per l’uccisione del cantante Oromo, organizzando una sollevazione popolare contro lo stesso primo ministro.

«L’orgoglio etnico e religioso crea dei focolai e dei risentimenti», spiega ancora il missionario.

La gestione politica di Ahmed è molto apprezzata a livello internazionale (ma anche dalla popolazione etiope stessa che finalmente ha visto allentarsi la tensione e l’insicurezza), grazie alla definitiva pacificazione con l’Eritrea, avvenuta nel 2018.

«La pace è stata spinta moltissimo da Abyi ed è stata una mossa lodevole», dice il comboniano.

«Noi come Chiesa cattolica siamo una piccola parte di un mondo cristiano e musulmano. Il 60% della popolazione è cristiana, con una prevalenza di protestanti. Il nostro ruolo qui è quello di tenere uniti i fedeli, portare avanti iniziative di carità e favorire il più possibile l’istruzione, in accordo con il sistema pubblico».

«La Chiesa cattolica promuove il rispetto assoluto tra cristiani, islamici e animisti. Questi ultimi credono in un Dio che riconoscono negli elementi della natura. Il rapporto tra cristiani e musulmani è sempre stato pacifico», afferma padre Agostini.