Fisico asciutto, volto quasi asiatico, cammina scalzo anche a casa, nel breve tempo di passaggio in famiglia in Italia. Incontro padre Domenico Rodighiero, missionario Oblato di Maria Immacolata, nel bel mezzo di una torrida estate italiana. Ma il caldo per lui non è certo un problema, anzi, abituato com’è al clima della terra thailandese dove opera da 20 anni.

Terminati gli studi formativi presso l’Università Lateranense di Roma e maturata la prospettiva concreta della missione all’estero, padre Domenico si perfeziona con una licenza in missiologia che ha concluso nel 1997 presso l’Università Gregoriana. «Questo ulteriore approfondimento – spiega padre Domenico – è stato molto proficuo sia dal punto di vista intellettuale, perché mi ha dato un’idea piuttosto chiara di come la Chiesa ha vissuto la missione ad gentes nei secoli; sia perché ho potuto approfondire la conoscenza delle maggiori tradizioni culturali e religiose. Poi ho concluso con un anno di esperienza in Africa come completamento della formazione e verifica della mia propensione alla missione». Parla quasi al presente padre Rodighiero, eppure sono passati 20 anni di vita missionaria in Thailandia.

Che cosa ha significato l’incontro con culture, popoli lontani? Cosa la missione ha cambiato in te?

«Avevo chiesto di andare in Asia proprio per vivere un’esperienza d’incontro con culture diverse e di tradizione millenaria. Il mio desiderio è stato accolto e questi anni sono stati una sfida straordinaria. Tutto ciò che ho vissuto mi ha obbligato a rivedere il mio modo di credere, mi ha aiutato a scoprire cosa è essenziale e invece cosa è accessorio. Mi ha aiutato a comprendere le persone che vengono da una tradizione diversa e non riescono a vivere la fede come me, perché anche il mio modo di vivere la fede è condizionato dalla mia cultura. Mi ha dato una visione più ampia dell’intervento di Dio nel nostro mondo: Lui è presente nel cuore e nella vita di persone che non hanno la mia fede; la missione è camminare insieme per scoprire più chiaramente come Dio vuole questa nostra umanità».

Vita nei villaggi

Per padre Domenico una cosa è ben chiara: è Dio il coach, il maestro e formatore costante della missione, le persone invece contribuiscono in vari modi, nel momento presente, alla sua missione. Idee così chiare che non sempre possiamo trovare in chi opera sul campo. I lunghi anni vissuti in Thailandia hanno cambiato radicalmente la sua visione delle cose, la sua sensibilità, e questo è frutto di un cammino di prossimità, di fraternità con una umanità differente, ma che cerca Dio.

«Vivo ora in un villaggio a 1.500 metri sul livello del mare e mi occupo di piccole stazioni missionarie sparse nella zona. La mia attività è semplice: visita regolare a tutte le piccole comunità e preparazione ai sacramenti; visita alle famiglie e formazione dei catechisti per la comunità cristiana, non solo a livello di fede, ma anche sotto il profilo umano (sensibilizzazione alla cura dell’ambiente, alla gestione delle risorse economiche, alla salute personale e altro); visita a cristiani che vivono in villaggi totalmente buddisti. Poi aiuto (ma il tempo è sempre poco) un confratello in un ufficio che produce emissioni radio per le tribù Hmong, emittente associata a Radio Veritas».

Nei campi profughi ci sono situazioni di vita al limite: ci sarà un possibile riscatto? Quali potrebbero essere le strade più percorribili? Quanto forte è per te la frase di Gesù: “I poveri saranno sempre con voi”?

«Il Vangelo è certamente un libro che ci parla di Dio, ma anche di noi! Ho sperimentato la verità della frase: “I poveri saranno sempre con voi”. Il messaggio cristiano ci chiede di lavorare per redimere quest’umanità e dare dignità ad ogni uomo, ma questo trova una resistenza che sembra insormontabile. Trasformare il cuore dell’uomo per renderlo più compassionevole, più solidale, più disposto ad una fraternità universale, meno egoista, meno centrato sulla ricerca del bene personale (o tribale) è una sfida che ci accompagnerà fino alla fine dei tempi. Io, come credente e come missionario, accetto questa sfida di costruire un mondo redento, non mi faccio molte illusioni sui tempi nei quali questo disegno si realizzerà. Credo che la Chiesa abbia il compito di mostrare che i semi di un’umanità redenta sono già stati gettati nel terreno e crescono, poco a poco, ma crescono. Quando sono nel villaggio e, con umiltà e rispetto (cosciente dei miei limiti), mi metto a servizio di questa povera gente, le persone percepiscono la forza del Vangelo. Quando lavoriamo per i loro diritti (qualche anno fa li abbiamo aiutati ad avere la cittadinanza), anche le autorità si sentono interpellate a fare qualcosa. La via percorribile è stare insieme a loro e lavorare per loro, perché questo è un segno che il Vangelo è vero. La missione, a mio avviso, ha il compito di porre dei segni e accettare, con fede, la debolezza di questi segni».

Sulla scia di queste parole forti e coraggiose chiedo al padre missionario in che modi la Chiesa, e in particolare la Chiesa missionaria, si sta adoperando per alleviare queste situazioni.

«La Chiesa in Thailandia fa molto per i poveri. La Chiesa missionaria, cioè i religiosi, è all’avanguardia, la Chiesa locale segue, forse perché manca un po’ di esperienza e fantasia. Come dappertutto si potrebbe fare di più… Questa Chiesa lavora con i cristiani e vive con loro nei villaggi sparsi nelle province. Si occupa dei più lontani nelle montagne del Nord con un lavoro missionario consistente. Pensa alla formazione dei giovani con scuole di qualità, aiuta i ragazzi più poveri dando loro borse di studio e accogliendo in convitti quelli che vivono in aree remote. Si prende cura degli anziani che ospita, spesso gratuitamente, in case di accoglienza. Aiuta regolarmente coloro che cercano asilo».

Giovani per l’ad gentes

Il pensiero di padre Domenico scorre fluido e la sua fresca analisi è molto sincera e oggettiva. Mi incoraggia ad incalzarlo con un approfondimento proprio sull’ad gentes delle Chiese di antica tradizione.

Come e cosa vede dal suo punto di vista nel futuro prossimo della missionarietà?

«Mi sembra di vedere una certa contrazione della sensibilità missionaria ad gentes delle Chiese di antica tradizione e, d’altra parte, si vede una missionarietà inversa (con ombre e contraddizioni) dalle giovani Chiese a quelle prettamente occidentali. La Chiesa in generale ha grande difficoltà a trovare una lingua capace di comunicare con le giovani generazioni, anche in Thailandia. Le forme con le quali esprime la sua fede sono spesso poco comprensibili o, semplicemente, non interessano perché vengono da un mondo molto lontano da quello dove i giovani vivono. Mi sembra ci sia bisogno di ripensare la pastorale del primo annuncio. Non basta conservare ciò che rimane, non serve aumentare il numero dei battezzati; la gente ha bisogno di capire il valore del messaggio di cui siamo mediatori e accoglierlo dentro il suo mondo tradizionale per poterlo esprimere secondo la sua cultura».

Come fare? Potrebbe essere un ulteriore interrogativo di fronte allo scenario che padre Rodighiero ci ha aperto. La cosa certa è che tutto questo è una sfida da qui in avanti…

Insomma padre Domenico, la missione ha certamente cambiato la tua vita. Che messaggio possiamo far giungere alle nuove generazioni, che attendono una missione possibile anche per loro?

«Fare una scelta missionaria oggi è difficile, non è più di moda, ma non si può essere preti, religiosi e perfino cristiani senza un cuore missionario e, oserei dire, senza una concreta esperienza missionaria ad gentes, cioè un incontro vero, reale con persone diverse da noi. Credo che sia questo incontro a cambiarci la vita e ad aiutarci a fare scelte radicali non pensate a tavolino, ma che vengono dalla gioia di lasciarsi interpellare, cambiare da colui che è diverso perché anche lui è portatore di valori. Credo che la scelta missionaria di un giovane non nasca più solo dal bisogno di portare un messaggio sperimentato personalmente come vero, ma anche dalla gioia di lavorare insieme con altri per costruire una casa comune. Mi sembra che i giovani abbiano già questa sensibilità perché vivono in un mondo molto più piccolo di quello nel quale ho vissuto io. Sono più liberi da pregiudizi, più abituati alla diversità, più abili nella comunicazione. Magari hanno una minore propensione al rischio e non vogliono lasciarsi scomodare, ma nessuno è perfetto. Comunque, credo che la missione sia proponibile ad un giovane».