A 30 anni dalla guerra civile, il Ruanda fa tesoro dell’esperienza di riconciliazione che ha permesso al Paese di risollevarsi dal genocidio in cui sono morte in 100 giorni oltre 800mila persone. Il conflitto tra gli hutu contro i tutsi è una ferita che ha impegnato diverse generazioni nella pacificazione della società dilaniata dalla violenza tra etnie, come racconta don Emmanuel Gatera, rettore del Seminario Maggiore San Carlo Borromeo di Nyakibanda, fondato nel 1936 in Ruanda, di passaggio a Roma per il corso annuale di aggiornamento per i Rettori di seminari dei Paesi di missione (fino al 7 giugno prossimo) organizzato da Propaganda Fide presso l’Università Urbaniana.

«Dal 7 aprile 1994 le milizie hutu scatenarono la carneficina – ricorda don Emmanuel -. Nella mia diocesi di Kibungo c’erano tanti tutsi, i militari hanno massacrato interi villaggi. La mia era una grande famiglia di 10 figli, mia madre e sette fratelli sono stati uccisi il 13 aprile 94, solo io e due fratelli siamo rimasti vivi, mi sono salvato perché ero in seminario minore a Zaza a fare un anno pastorale. Mi sono nascosto prima nel tetto dell’edificio e poi nella vicina parrocchia. Nessuno sapeva che ero tutsi, non potevo nemmeno piangere perché nella violenza di quei giorni, avrei messo a rischio la vita».

Sacerdote diocesano, 58 anni, ha studiato a Roma due anni presso l’Accademia Alfonsiana per tornare poi al suo Paese, nella diocesi di Kibungo nella regione Nord orientale del Ruanda, verso il confine con la Tanzania. Ricorda i momenti di paura, quando «nessun luogo era sicuro, ovunque c’era la possibilità di essere traditi e uccisi ancora prima di spiegare. Anche in Seminario molti sono stati uccisi, lanciavano bombe e si sentivano urla, raffiche di mitra. In pochi giorni la mia classe da 40 ragazzi si è ridotta a 17, perché molti erano in vacanza presso le loro famiglie e sono stati uccisi. Il rettore ha cercato di proteggerci, sono stati giorni convulsi, ho visto tutto, ricordo tutto. Anche dopo le stragi gli assassini tornavano per vedere se c’era ancora qualcuno vivo da finire con un colpo di machete. Più volte ho sentito che stavo per essere ucciso, mi sentivo già morto».

Dopo l’orrore, la pacificazione del Paese, e poi dal 2000 il governo del presidente Paul Kagame, hanno fatto voltare pagina al Ruanda grazie, spiega don Emmauel «all’impegno costante della Chiesa, dei sacerdoti e dei vescovi che hanno molto lavorato in questo processo, in collaborazione con lo Stato. Abbiamo cercato di ricostruire i luoghi dei massacri attraverso testimoni e parenti, ma ancora oggi non sappiamo nulle di molti scomparsi. Sono state incoraggiate le persone a confessare le stragi e a chiedere perdono. La pastorale del perdono, grazie alle comunità di base si è diffusa in modo capillare nelle città e nei villaggi, ma anche molti prigionieri in carcere hanno chiesto perdono ai parenti delle lor vittime».

Oggi don Gatera ha preso il posto di monsignor Musengamana, nominato vescovo della diocesi di Byumba in Ruanda. Malgrado si tratti di una giovane Chiesa con 120 anni di vita, il suo Seminario ospita poco meno di 200 seminaristi teologi: nel 2023 la Direzione nazionale italiana delle Pom ha inviato 10mila euro come contributo al sussidio ordinario disposto dalla Pospa.

La storia del Seminario segue quella della Chiesa locale che fondata a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, quando monsignor Jean Hirth, nominato alla guida del nuovo vicariato apostolico di Nyanza Meridional (comprendente il Ruanda) ebbe l’intuizione che la Chiesa locale dovesse basarsi sulla formazione seria e durevole del clero diocesano autoctono. Oggi in Seminario «cerchiamo di far capire cosa è successo, molti studenti sono giovani e non conoscono la storia di quel momento – aggiunge don Gatera -, ma i genitori e i nonni sopravvissuti ricordano, ma i giovani non sempre riescono a metabolizzare i traumi. Ancora oggi continua l’impegno pastorale per quella che ormai si può considerare una riconciliazione permanente, nella quale sono state coinvolte diverse generazioni. Si lavora molto a livello sociale, anche nelle scuole per preparare e spiegare questa drammatica pagina di storia, anche se molti giovani non riescono a capire come si sia potuti arrivare ad un simile genocidio, ad uccidere un amico, un vicino di casa».