Sono 122 i Paesi del mondo in cui vengono compiute torture. Crimini e violazioni della “legge di guerra” accadono in 20 nazioni. Almeno 30 governi rifiutano l’accoglienza ai rifugiati e la libertà di espressione è negata o sottoposta in 113 Stati. Un quadro poco rassicurante se pensiamo che oggi si celebra il 70esimo anniversario della Dichiarazione universale dei Diritti dell’uomo, firmata a Parigi il 10 dicembre 1948. Alla fine della Seconda guerra mondiale, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite adotta questa magna charta dei diritti umani fondamentali che da allora rappresenta la pietra angolare del diritto internazionale. Un documento che è ancora un ideale da raggiungere e che è il fil rouge di molte convenzioni e trattati internazionali. Malgrado le dichiarazioni di intenti siano inconfutabili, molto resta ancora da fare per metterle in pratica: le ingiustizie sociali, la tortura, le restrizioni della libertà di espressione religiosa e di opinione, la malnutrizione, il sottosviluppo (o “cattivo sviluppo”, come si dice in certi casi) persistono anche nei Paesi democratici. E oggi la crescita delle minacce terroristiche, belliche e nucleari favorisce la chiusura dei confini nazionali e l’incremento dei populismi. «Dopo 70 anni di lavoro duro i diritti umani sono ancora in pericolo… Non possiamo contare su certi governi per la difesa dei diritti fondamentali, dobbiamo sentirci responsabili in prima persona» dice Salil Shetty, Segretario generale di Amnesty International, ricordando che il cahier de doléances internazionali è ancora molto lungo.

Migranti e rifugiati chiedono giustizia

Problemi con dimensioni globali si focalizzano in contesti locali: basti pensare al traffico di armi dai Paesi occidentali a quelli del Sud del mondo, alle reti del terrorismo internazionale, alla rimonta dei nazionalismi, alle migrazioni e alla crisi dei rifugiati, oltre 60 milioni di persone, un popolo sparso ai quattro angoli della terra.

Sempre secondo il report di Amnesty International, nel 2016, 36 Paesi hanno violato il diritto internazionale restituendo illegalmente rifugiati alle terre in cui erano a rischio di tortura, violenze e morte. E molte etnie minoritarie, come ad esempio i Rohingya, ne fanno le spese. L’Australia ha inflitto terribili sofferenze ai richiedenti asilo sulle isole Nauru e Manus. Nel Vecchio Continente, l’Unione Europea ha stipulato un accordo con la Turchia per restituire i rifugiati a quel Paese che non era in grado di proteggere i loro diritti fondamentali. Per non parlare di quanto accaduto e accade in Libia, dove chi è sopravvissuto ai lager libici racconta di violenze e torture di ogni tipo. Anche negli Stati Uniti, l’era del presidente Trump è caratterizzata dalla chiusura delle porte alle persone (compresi i rifugiati) provenienti da Siria, Iran, Libia, Somalia e Yemen. Sei Paesi a maggioranza musulmana in cui molti cercano asilo all’estero per fuggire dalle persecuzioni, dalla fame e dai bombardamenti sui civili.

Dalla Siria al Sud Sudan

Proseguendo nel giro d’orizzonte dei diritti violati, è d’obbligo una tappa in Siria, dove i lunghi anni del conflitto hanno ucciso, ferito, costretto alla fuga migliaia di persone. Malgrado i tentativi di mediazione e l’invio di aiuti dall’estero, gli scontri tra le truppe del presidente Assad e gruppi armati dell’Islamic State hanno duramente provato la popolazione civile che ha subito assedi, bombardamenti, mancanza di cibo e medicinali. E spesso è stata costretta a rifugiarsi nei Paesi vicini come il Libano o a prendere la strada della migrazione verso l’Europa.

Foto: Afp/ Yasin Akgul

In Turchia, dopo il colpo di Stato del presidente Erdogan, la repressione massiccia si è abbattuta sui funzionari e la società civile, colpendo oltre 40mila persone accusate di appoggiare il movimento di Fetullah Gulen, molte delle quali sono state sottoposte a torture nelle carceri di Stato. L’epurazione di massa ha portato al licenziamento di 90mila dipendenti pubblici, all’allontanamento di giornalisti, di rappresentanti di Ong e di parlamentari dell’opposizione, molti dei quali spariti dalla visibilità internazionale.

E’ aumentata la censura sull’uso di internet e dei social network, sono state vietate le manifestazioni pubbliche, mentre gli abusi commessi dalle forze di sicurezza sono rimasti impuniti. Le violazioni si sono concentrate nell’area Sud-est del Paese a maggioranza curda, dove è stato imposto il coprifuoco 24 ore al giorno. E mentre mezzo milione di turchi sono sfollati dal Paese, l’Unione Europea ha stretto con Erdogan un accordo sull’immigrazione che ha assottigliato il flusso lungo la Rotta Balcanica di migliaia di profughi provenienti in gran parte dalla Siria, dall’Afghanistan e dall’Iraq.

Dalle Filippine al Sud Sudan

Scorrendo la black list delle violazioni, troviamo le Filippine del presidente Rodrigo Duterte, impegnato in una violenta campagna antidroga che ha portato all’uccisione di oltre seimila persone solo nel primo anno di governo. Intimidazioni, arresti, esecuzioni di massa senza prove e giudizio legale hanno fatto delle Filippine un Paese sotto terrore, come sottolinea il direttore di Amnesty International per il Sud-est asiatico e il Pacifico, James Gomes: «Duterte è salito al potere con la promessa di porre fine alla criminalità. Invece, migliaia di persone sono state uccise da, o per conto di una polizia che agisce al di fuori della legge, su ordine di un presidente che non ha mostrato altro che disprezzo per i diritti umani e per coloro che li difendono». Col risultato, continua Gomez, che «la campagna non solo non ha posto fine alla criminalità e ai problemi legati alla droga, ma ha trasformato il Paese in un luogo ancora più pericoloso, compromesso ulteriormente lo stato di diritto e consegnato al suo ideatore la fama di leader colpevole della morte di migliaia di suoi cittadini».

Foto: Sushavan Nandy/Nur

Sempre nel Sud-est asiatico, il Myanmar non può più negare di fronte agli occhi del mondo le responsabilità nella drammatica epopea dei Rohingya, la minoranza perseguitata per motivi etnici e religiosi, in quanto a maggioranza musulmana in un Paese buddista. Settecentomila persone ammassate ai confini col Bangladesh aspettano che il mondo si svegli dall’indifferenza, come ha detto papa Francesco a Dacca, durante il suo ultimo viaggio pastorale: «Noi tutti vi siamo vicini. È poco quello che possiamo fare perché la vostra tragedia è molto dura e grande, ma vi diamo spazio nel cuore. A nome di tutti quelli che vi hanno perseguitato, che vi hanno fatto del male, chiedo perdono. Non chiudiamo il cuore, non guardiamo da un’altra parte. La presenza di Dio oggi si chiama anche Rohingya. Ognuno ha la sua risposta».

Se ci spostiamo in Africa, tra le varie zone di crisi emerge quella del Sud Sudan, dove il conflitto tra le forze governative e quelle dell’opposizione prosegue, malgrado la firma dell’accordo di pace. Violazioni del diritto internazionale umanitario, uccisioni sommarie e stupri di migliaia di donne sono la ferita non rimarginata della popolazione sudsudanese, vittima di rivalità politiche e battaglie come quella che si è consumata a Juba nel luglio dello scorso anno.

Il viaggio tra i punti più difficili del pianeta dimostra che la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo si porta abbastanza male gli acciacchi dei suoi 70 anni. Ma l’umanità ne ha bisogno e la Storia può fingere di dimenticare, ma non rinnegare se stessa: il rispetto dei valori universali è la vera base per la costruzione e la conservazione della pace. Un assioma che, tra passato e futuro, non può certo cambiare.