Tornerò a casa cambiato

Tutto ha avuto inizio nel 2016, un anno di svolta per la mia esistenza: stavo per terminare il percorso da liceale per
iniziare quello da universitario. Ero convinto che questo sarebbe stato il cambiamento più grande che stava per affacciarsi alla mia vita, ma non avevo fatto i conti con quello che, mese dopo mese, si stava sempre più consolidando nella mia testa e nel mio cuore: la convinzione che in quell’estate di transizione sarei partito, sarei partito per andare altrove, sarei partito per un posto che mi avrebbe offerto uno sguardo diverso.

Ad aiutarmi in tutto questo è stato, di certo, il Centro missionario della diocesi di Padova con il percorso “Viaggiare per condividere”, offerto ogni anno a tutti i giovani che hanno nel cuore il desiderio di incontrare e conoscere culture diverse.
A quel punto c’era solo una domanda che dovevo pormi: «Gio, dove vuoi andare?». Nemmeno il tempo di capirmi un attimo, e subito la risposta mi si stava palesando: «Dioincidenza su Dio-incidenza». Nulla infatti in quell’anno è stato casuale, c’era un luogo che continuava a tornare, ad emergere anche in contesti apparentemente staccati tra loro: la Tanzania.

Mi piace pensare che non sono stato io ad aver scelto lei, ma lei ad avere scelto me.
«Tornerai a casa cambiato», «Non tornerai più a casa», «Avrai tantissimo da raccontare ma non ce la farai»: queste erano le frasi quasi intimidatorie che mi accompagnavano nell’attesa del tanto agognato mese di agosto.

Cosa dovevo aspettarmi? «No, Gio, non devi aspettarti nulla. Accogli tutto quello che viene», continuavo a ripetermi.
A distanza di quattro anni mi ritrovo qui a sognare di rivedere quella terra, quel ventre che mi ha accolto, mi ha voluto bene e che mi ha donato una nuova casa. Ma come facevo prima a vivere senza aver provato questa esperienza di vita?

Rivedere le foto di quei momenti è come una spada di Damocle: da una parte, mi aiuta a rivivere quei momenti indelebili; dall’altra, però, mi fa sentire un forte senso di nostalgia. Di certo, svegliarmi ogni mattina con questa foto sulla parete della mia camera non è semplice. Sono profondamente legato ad ogni singolo particolare di questa immagine.

Lei si chiama Mariam. Era l’ultima arrivata lì, in orfanotrofio a Migoli, e aveva due mesi. Quando la mattina andavamo a dare una mano alle suore in orfanotrofio, venivamo a conoscenza delle storie dei vari bambini. Quella di Mariam è rimasta impressa in tutti noi. Facilmente tra noi c’era chi era già emotivamente sul piede di guerra contro la mamma di quella creatura… È bastato pochissimo per bloccare i pensieri e lasciare spazio solo all’ascolto.

Poche settimane prima, la madre di Mariam aveva affidato alle cure delle suore sua figlia dicendo: «Mi spiace doverla lasciare qui, ma purtroppo io non riesco in alcun modo a darle da mangiare. Se la lascio a voi so che qui avrà i pasti assicurati… Mi raccomando, abbiate cura di lei».

Nel nostro orizzonte conosciuto, una mamma lascia la figlia perché non la vuole; ma in Tanzania, come in tanti altri Paesi, questa decisione è solo ed esclusivamente frutto d’amore per la vita della propria creatura, per salvarla dalla morte.
Mi piaceva molto tenere in braccio Mariam. Quando arrivavamo in orfanotrofio, le suore ci “affidavano” i bambini e a me toccava quasi sempre lei. Con i suoi grandi occhi continuava ad osservare ciò che le stava intorno. Non piangeva mai. Sembrava addirittura che non sbattesse le palpebre.
Era veramente piccola, piccola. Le piaceva quando, distendendo al massimo le braccia verso l’alto, le facevo vedere
il mondo da un’altra prospettiva: rideva felice.

Un giorno un altro bambino, mentre faceva a gara per provare a salirmi in braccio, mi disse: «Tu, papà mio e di Mariam».
A volte mi dimenticavo dove fossi. Mi dimenticavo che la speranza di ciascuno di loro era quella di vedere arrivare qualcuno che avrebbe avuto cura di loro per sempre. In quei momenti mi fermavo e mi guardavo intorno. C’erano tanti ospiti: la più piccola aveva due mesi e i più grandi avevano la mia età, ma sembravano più adulti di me per i pesanti fardelli di vita che recavano sulle spalle. Si era formata una vera famiglia: le suore si facevano aiutare dalle ragazze più grandi per far addormentare e dare da mangiare ai piccoli.

Ogni volta che guardo questa foto, rivivo intimamente la cura che avevano tutte le persone. Avevano cura di ciascun ospite, non si prendevano semplicemente cura: “avere cura” rimanda ad un rapporto tra persone pienamente umano, dove è chiamato in gioco l’amore puro e sincero verso l’altro.

Questo è proprio quello che ho vissuto anch’io in questa terra di missione: mi sono sentito voluto bene, un ospite importante e, allo stesso tempo, uno di famiglia.
Solo una volta tornato a casa, solo ora, ho capito – e comprendo sempre più – cosa significava una delle frasi che ci
è stata donata a conclusione della nostra esperienza: «Non è il cuore a dover trattenere ciò che l’occhio ha visto, ma è
l’occhio che deve trattenere ciò che il cuore ha visto»

Giovanni Lago