Il Sud Sudan è risultato finora fortunatamente immune al Covid-19, ma è anche vero “che qui i tamponi non sono disponibili”.

Inoltre l’eventuale diffusione del virus preoccupa medici e infermieri poichè “questo virus è più pericoloso della Sars e dell’Ebola”.

A spiegarcelo, al telefono dal Sud Sudan, è Nicolò Binello, medico del Cuamm, Medici con l’Africa, la ong diretta da don Dante Carraro.  

La differenza con Ebola è che “in quel caso la percentuale di mortalità era elevatissima, addirittura del 50%, ma il tasso di contagiosità risulta di molto inferiore a quello del Covid-19”.

“Questo virus è estremamente contagioso, più della Sars e dell’Ebola – dice il medico – Possiede un’alta carica virale, soprattutto nelle persone con la malattia conclamata in corso. Inoltre, il problema è che gli asintomatici possono trasmettere il Covid-19, a differenza di quanto avviene con l’Ebola, dove chi non porta i segni della malattia non è ammalato”.

 Inoltre è come se il Covid-19 fosse un ‘miglioramento’ delle versioni precedenti di Coronavirus, “ma adesso – e questa è la nota positiva – si spera che si diffondano anche le varianti più benigne dello stesso virus”.

 “Io mi trovo a Lui, un piccolo villaggio capoluogo della Contea di Mundri East, dove l’ospedale è collegato con la capitale dello Stato regionale da un strada di terra battuta – racconta Binello – Qui attorno tutte le persone hanno un livello di povertà elevatissimo”.  

“Non un solo caso di coronavirus è stato registrato finora qui da noi-  conferma Binello -, ma per un motivo semplice: l’Oms ci ha notificato che per adesso non sono disponibili i tamponi.

Nel momento in cui dovessimo disporne, e dunque diagnosticare la malattia, sarà inevitabile constatare diversi problemi nel contenimento di pazienti affetti e nel trattamento del virus”.

In Sudan invece i casi arrivano ad oggi a sette, con due persone decedute.

“Il Sud sudan è un Paese in cui il sistema sanitario è già al collasso, a seguito di anni di guerra civile – spiega il medico – Io lavoro in una zona rurale e qui si ha la sensazione della fragilità del sistema sanitario in tutte le sue sfaccettature”.

 Misure come il lavaggio delle mani o la protezione della bocca, nei Paesi africani, sono raccomandazioni su cui gli operatori sanitari “possono intervenire per sensibilizzare la popolazione, ma la sfida è gigantesca. Il sapone liquido molte volte manca o è completamente inutilizzato. Stiamo comunque cercando di attuare una prevenzione, prima di arrivare a dei casi conclamati”.

Il problema maggiore è la reperibilità di “dispositivi di protezione individuale: mascherine, camice e protezione degli occhi. Di mascherine non ce ne sono – spiega – Se dovesse davvero scoppiare l’epidemia, come in Italia, non ne verremmo assolutamente a capo”.

Questo vale per tutti gli ospedali rurali dell’Africa sub-sahariana: “nel nostro, che è davvero basilare, a volte non abbiamo neanche l’ossigenoterapia. Per non parlare del fatto che le misure di isolamento sono difficilmente realizzabili”.  

Ci sono però anche delle “note ottimistiche – dice il medico – Anzitutto la scarsa possibilità di spostamento delle persone da un luogo all’altro, sebbene in realtà camminino molto a piedi, e poi la piramide della popolazione che qui in Africa è rovesciata: la maggior parte della gente è giovane e composta da persone sotto i 20 anni. Noi speriamo davvero che si sviluppi una variante del virus in forma più lieve”.

L’auspicio è che in Africa il livello di diffusione rimanga basso grazie alla scarsa mobilità umana e al fatto che la maggior parte dei Paesi si sono fin dall’inizio blindati dentro, chiudendo i collegamenti esterni, e molti voli negli aeroporti, lasciando aperte solo le frontiere interne.