La terra rossa sotto i piedi stanchi e ruvidi, la polvere trafitta dai raggi ardenti, le spighe di grano cullate dal vento gelido, le stelle che pizzicano l’intera volta celeste, gli occhi di chi, invece di una lacrima amara, riesce a donare un dolce sorriso.

Ci troviamo a Kisinga, un villaggio nel distretto di Makete nel Sud della Tanzania. A più di duemila metri sopra il livello del mare, un’epidemia di Hiv ha sterminato la maggior parte della popolazione medio-adulta nei primi anni del 2000 lasciando oltre 600 bambini orfani, soli o con i nonni malati di cui prendersi cura.
Nella foto, 15 anni dopo, due donne tanzaniane portano 30 chili di mattoni in testa verso il cantiere: hanno inizio i lavori alla Guest House, il mio primo progetto di architettura, una casa che ospiterà decine di volontari ogni anno spinti dalla curiosità di toccare con mano la realtà missionaria.
La missione nel villaggio di Kisinga è nata in seguito ad un sogno, un progetto più grande di noi rivelatosi nel tempo possibile grazie anche a Deborah, una missionaria laica tanzaniana che ha lasciato la sua realtà benestante e ha deciso di dedicare la sua vita intera agli orfani del villaggio.

Oggi vive in una casa-famiglia in mezzo alle montagne di Kisinga con una decina di bambini orfani ed è una mamma meravigliosa. Non è necessario avere un legame di sangue per creare una famiglia. A volte le sofferenze non sono semplicemente fogli bianchi ma tele per dipingere, non sono ferite ma feritoie per la luce, non sono vuoti da colmare ma spazi per costruire.

È iniziata così la mia esperienza in Tanzania; grazie a Federico, Francesca, Giuseppe e Lucia, fondatori dell’associazione “Venite e Vedrete Onlus”, grazie a quella curiosità di scoprire la realtà missionaria, grazie ad una chiamata alla quale non puoi dire di no, grazie a quella voglia di dedicare agli altri la cosa più preziosa che abbiamo: il nostro tempo. Perché in fondo, oltre a fare qualcosa per l’altro, a volte è più importante essere qualcuno per l’altro, e nella nostra società oggigiorno purtroppo non diamo molta importanza a quest’ultimo aspetto.

Abbiamo bisogno, quindi, di costruire più legami con gli altri, abbiamo bisogno di costruire più ponti e meno muri, abbiamo bisogno di costruire più strade e camminare per mano a piedi nudi, lentamente, per ricominciare ad ascoltare il ritmo del cuore. Bisogna fare silenzio per poter udire i battiti, i propri e quelli degli altri.

Capisci a fondo che, a prescindere dalla condizione sociale e dal colore della pelle, il cuore che batte nel mio petto è identico a quello che batte nel tuo, e che nelle mie vene scorre lo stesso sangue che scorre nelle tue. Purtroppo, spesso, si ha paura di chi apparentemente può sembrare diverso. C’è una strada infatti che va dalla mente al cuore e a volte non basta una vita per percorrerla. Perché in fondo ci è dato un tempo limitato per amare, in altre parole per vivere; e non vivere appieno ogni singolo istante significherebbe semplicemente ucciderlo.

La vita non è stare comodi, e vivere comodi non significa vivere veramente. La vita è amare, andare incontro all’altro, costruire relazioni. Se vivi solamente per te stesso non sarai mai felice appieno perché cercherai sempre di soddisfare un bisogno ma subito dopo ne avrai un altro. Vivere per sé stessi rende l’uomo insaziabile, infelice oppure soddisfatto per un tempo breve. Ma vivere per gli altri è tutta un’altra storia: quando ci si dona agli altri la felicità è condivisa, la felicità è permanente e si moltiplica.

Emanuel Jicmon