Al Convegno missionario nazionale dei Seminaristi in corso a Bergamo da mercoledì scorso, la giornata di oggi – venerdì 29 aprile – è stata caratterizzata dall’ascolto delle tante testimonianze dalla missione.

Una Tavola Rotonda ha riunito le voci di alcuni fidei donum bergamaschi, oggi rientrati da diversi Paesi.

 

UN SACERDOTE FIDEI DONUM IN COSTA D’AVORIO

Don Gian Domenico Epis è stato inviato in Costa d’Avorio per 16 anni, sebbene il suo desiderio fosse sempre stato quello di partire per la Bolivia. Nella comunità di Tanda, nel Nord-Est del Paese, il fidei donum aveva con sé due sacerdoti ivoriani: «Questo è stato uno scambio molto bello perché loro mi hanno permesso di conoscere la cultura del posto, di capire certi comportamenti della gente che magari, da occidentale, non riuscivo a comprendere». Don Gian Domenico ha descritto una realtà locale dove «le comunità vivono tenendo conto che il missionario passa una volta al mese». I laici, però, sono formati per gestire e guidare le comunità che sono «molto vivaci e hanno dinamicità, anche se poca esperienza pastorale».

Di fronte ai seminaristi, il racconto dell’invio di don Gian Domenico in missione assume la valenza di una testimonianza: «Sin da ragazzo ascoltavo i racconti dei missionari bergamaschi che rientravano e mi è venuta la voglia di partire. C’è una Chiesa che invia e ti senti in una famiglia, un piccolo tassello dentro un grande mosaico. Non parti da solo, ma c’è il Centro Missionario che ti supporta».

Una volta rientrato, il sacerdote ha cercato di mettere a frutto l’esperienza vissuta in Africa: «All’inizio sono andato in crisi perché qui cambiano i ritmi, le responsabilità. Mi ha colpito molto la fretta della gente che non ha più tempo per fermarsi e dire “ciao”. Qui si rischia di non avere più tempo per ascoltare il vissuto delle persone». E invece don Gian Domenico ha cercato di portare «piccoli segni dall’Africa»: non avere sempre l’orologio sottomano, tenere il cancello di casa aperto, organizzare al meglio la Giornata Missionaria Mondiale, andare alla ricerca degli stranieri che vivono nel territorio parrocchiale, avvicinarsi a loro.

 

UNA FAMIGLIA TRA LE FAMIGLIE IN BOLIVIA

Daniele ed Elisa Restelli sono una coppia milanese cresciuta in oratorio che per una serie di coincidenze ha scelto di partire per la Bolivia, inviata dalla Chiesa di Bergamo. Nella missione di Cochabamba è arrivata nel 2010, come famiglia, con i due figli. Quando è ripartita, dopo tre anni e mezzo, il numero dei bambini era cresciuto di una unità.

«In Bolivia abbiamo avuto la fortuna di vivere in un contesto di comunità, perché siamo andati ad abitare nella casa di riferimento della diocesi. Prima di partire eravamo preoccupati di avere uno spazio per noi, ma poi lo abbiamo usato solo per tre pasti: i nostri figli, infatti, quando proponevamo loro di stare nello spazio riservato solo a noi, ci chiedevano: “Perché, siamo in castigo?”», racconta Daniele.

I bambini sono certamente una chiave per entrare nella comunità che accoglie. «Una famiglia missionaria – dice Elena – ha il vantaggio di essere famiglia tra famiglie. In due mesi i nostri figli parlavano lo spagnolo. Per noi questa è stata una scelta di servizio, ma anche una scelta educativa e di apertura al mondo».

I due sposi hanno elencato i doni portati a casa dalla Bolivia, ricchezze e tesori da cui trarre frutto, come: guardare alla nostra realtà con una visione meno eurocentrica e riuscire a scoprire l’importanza del tempo; una maggiore corresponsabilità e voglia di impegnarsi nella propria comunità; uno sguardo sull’economia domestica diverso, ricordando chi non riusciva a mettere insieme la cena per la propria famiglia; grande desiderio di raccontare l’esperienza vissuta.

 

UNA LAICA IN ALBANIA AL TEMPO DEL COVID

Anna Sobatti è una giovane studentessa rientrata dall’Albania da poco. Partita nell’ottobre 2019, il suo progetto missionario ha subito una continua evoluzione a causa del lockdown imposto dal Covid.

Inizialmente la sua presenza era quella di accompagnare nella vita quotidiana tre ragazze adolescenti albanesi che si erano trasferite in città, da una zona montuosa del Sud, per continuare a studiare. «In Albania – racconta Anna – c’è una situazione sociale molto complessa nella parte meridionale del Paese: le ragazze adolescenti, spesso, vengono destinate alle nozze combinate, interrompendo così gli studi. A quelle tre ragazze facevo da sorella maggiore permettendo loro di studiare».

A marzo 2020, però, anche in Albania viene chiuso tutto. Anna si ritrova sola. Il dilemma se rientrare nella sua Bergamo martoriata dal Covid è grande. Decide di rimanere in Albania, andando a vivere in una comunità religiosa delle Sorelle Francescane del Vangelo che la accolgono a braccia aperte. «I primi due mesi – ricorda Anna – sono stati di totale chiusura per l’emergenza Covid: siamo state le une comunità per l’altra. Poi per me è partito un nuovo progetto di visita nei villaggi e animazione dei bambini».

In Albania, prosegue Anna, «ho imparato ad accorgermi della Provvidenza che c’è nella vita di tutti i giorni. L’ho imparato là e spero di riuscire a viverlo anche qui».

Per quanto riguarda la decisione di andare in missione, Anna ammette: «L’oratorio e la mia comunità parrocchiale sono partiti con me, nel senso che hanno accompagnato in tutto e per tutto la mia partenza. Però hanno curato anche il mio rientro, sebbene abbia trovato una realtà completamente trasfigurata dopo il Covid».

 

PADRE TESTA, MISSIONARIO AD VITAM E “PRIGIONIERO POLITICO”

Dopo le voci dei fidei donum bergamaschi, i partecipanti al convegno hanno avuto anche l’opportunità di ascoltare l’esperienza missionaria lunga un’intera vita, per bocca di padre Gianfranco Testa, missionario della Consolata in Argentina, in Nicaragua e in Colombia.

Ordinato sacerdote nel 1967, padre Gianfranco si è definito «figlio della Chiesa, ma anche figlio del ‘68 (in quel periodo ero a Padova all’università) e figlio del Concilio Vaticano II».

La sua prima terra di missione è stata l’Argentina. Erano gli anni della dittatura e chi, come lui, stava dalla parte dei contadini e dei poveri e cercava di denunciare ingiustizie e lavorare per una loro dignità di vita, venne presto messo nel mirino. Così fu arrestato come “prigioniero politico” e visse in diverse carceri per quattro anni e otto mesi.

Nel 1978 fu espulso e rientrò in Italia. Ma presto ripartì per il Nicaragua, sulle montagne al confine con l’Honduras. «Ho trovato una comunità viva, gli animatori laici venivano chiamati i “Delegati della Parola” e ricevevano il mandato dal vescovo. Gente straordinaria, che conosceva la propria comunità. Sono stati sette anni intensi, ma ho visto molta sofferenza e molta violenza».

Poi in Nicaragua è arrivata la pace. E padre Testa fu inviato in Colombia, attanagliata dal narcotraffico. Dopo anni, una grave malattia lo ha costretto a rientrare in Italia. Ma non è stato con le mani in mano.

A Torino ha organizzato incontri sul perdono e la riconciliazione, anche tra preti e suore di clausura. E da questa esperienza ha fondato l’Università del Perdono.

«Si è missionari ovunque, dove siamo chiamati a vivere», conclude padre Testa. «E, come tali, siamo chiamati non a convertire gli animi, ma a trasformare le persone».