Questa è la storia di una esperienza, quella della diocesi di Capua che a Castelvolturno, provincia di Caserta, litorale nord di Napoli, ha creato il “Centro Fernandez”, per l’ascolto e l’accoglienza dei migranti che a migliaia hanno scelto questo posto come approdo in Italia. Il territorio della diocesi di Capua non è nuovo a questo tipo di presenza: già negli anni ’80 era in funzione il “Centro Assistenza Profughi Stranieri”, per persone dell’est che chiedevano asilo politico in vista del grande salto verso l’America o il Canada. E poi arrivarono i boat people vietnamiti. Il Centro, uno dei tre in tutta Italia assieme a Latina e Trieste, chiuse i battenti nel 1990. Il territorio non ebbe forse nemmeno il tempo di riflettere sull’esperienza appena passata che piano piano un’altra emergenza era all’orizzonte: nuovi arrivi di persone africane iniziavano a stabilirsi sul litorale di Castelvolturno che, alla fine degli anni ’70, mirava a diventare la Rimini del basso Tirreno con spiagge, hotel, villaggi turistici, case di mare… In questo litorale di 27 km si riversarono in pochi anni gli interessi di grandi immobiliaristi: appalti e colate di cemento, ma arrivò pure la camorra a fare la regia di interessi che non poteva lasciarsi sfuggire. Il sogno di creare grandi centri di balneazione svanì in pochi anni e rimasero migliaia di case vuote, interi palazzoni disabitati occupati dagli immigrati africani che iniziavano – alla fine degli anni ’80-  ad arrivare in Italia. 

Di quella Castelvolturno che doveva diventare l’ombelico del mondo è rimasto solo il centro sportivo del Napoli Calcio, dove oggi altri immigrati – questi però pagati a peso d’oro –  si allenano a ridosso della grande pineta; un’isola però inaccessibile per il resto del territorio. 

Gli immigrati dagli anni ’90 vengono attratti nella zona da due fattori: la possibilità di alloggio a pochissimi soldi e la possibilità di impiego nelle campagne circostanti. Tutto abusivo, ovviamente, in nero, fuori dalla legge. Si è creata nel giro di un ventennio una delle concentrazioni più forti di immigrazione sul territorio italiano: quasi il 50% dei 30 mila abitanti sono stranieri, senza contare gli “invisibili”, non censiti da nessuno, che fanno alzare l’asticella di altre 15.000 unità. 

E così Castelvolturno, provincia di Caserta, diocesi di Capua, in poco tempo, per la politica e non solo, è diventato un problema, una bomba ad orologeria, che si innesca puntualmente ad ogni tornata elettorale. 

Una realtà a lungo taciuta dalle cronache nazionali fino al 18 settembre 2008: una notte drammatica per Castelvolturno. Quella sera il gruppo camorrista dei Casalesi ha voluto dare una lezione alla malavita immigrata che nel frattempo si era organizzata per gestire lo spaccio della droga e della prostituzione. Fu una carneficina passata alla storia come la strage di san Gennaro: sei persone uccise davanti ad una sartoria a Ischitella, la parte di litorale di fronte all’isola di Ischia.  Sei persone innocenti, passanti, uccisi per ritorsione: far capire chi comandava, chi era il padrone di questo lembo di terra casertana. Cosa fare? Come porsi di fronte a questa situazione? La diocesi di Capua istituì il “Centro Fernandez” per l’ascolto e l’accoglienza degli immigrati, un centro che offre servizi: dalla mensa all’ambulatorio medico, al dispensario, dall’accompagnamento psicologico al disbrigo delle pratiche burocratiche legate non solo al lavoro e al permesso di soggiorno. 

“Facciamo quello che la politica non fa ma ha sempre promesso di fare”, ci spiega Antonio Casale, direttore del Centro. C’è la Castelvolturno del degrado, dell’abbandono, e quella della solidarietà e del riscatto. La diocesi di Capua è presente con le parrocchie e ha chiamato i missionari a collaborare nel “Centro Fernandez”. Ci lavorano, tra gli altri, due comboniani: padre Sergio Augustoni e padre Antonio Guarino. “Gli immigrati si sono portati le loro fedi”, ci dice p. Antonio: “Ci sono 40 cappelle di denominazioni cristiane differenti, c’è la moschea. Per noi è importante che l’africano possa condividere la sua ricchezza spirituale, qualsiasi essa sia”. E continua: “Con i responsabili della moschea c’è collaborazione, si fanno cose assieme. Perché, o si cammina assieme, o non si va da nessuna parte!” Ma la domanda che i missionari si fanno e che è evidente girando per le strade semisterrate piene di erbacce di Castelvolturno è questa: in una situazione dove sono presenti 40 nazionalità diverse, chi accoglie chi?  È su questa domanda che si gioca il futuro di Castelvolturno. E non solo. 

 

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