Dopo l’ennesima tragedia in Centrafrica, dove il bilancio dei morti a Bangui è salito a 26, il cardinal Dieudonné Nzapalainga torna a far sentire la sua voce, sempre molto potente.

«La priorità – ha detto Nzapalainga – è quella di lanciare un forte appello alla calma. Non rendiamoci schiavi dell’odio e della vendetta. Ma allo stesso tempo dovrà esser fatta giustizia ed avviata un’inchiesta per individuare i responsabili».

E ha aggiunto: «oggi, molti dei nostri concittadini sono in ospedale e soffrono. Il risultato è sotto i nostri occhi: morti, saccheggi e distruzioni», affliggono la Repubblica Centrafricana ancora scossa da un conflitto interno che non accenna a placarsi.

Nella chiesa di Notre Dame di Fatima, a Bangui, il primo maggio scorso, uomini della banda del generale Force che si annidano nell’enclave musulmana chiamata km 5, hanno sparato sui fedeli uccidendo padre Albert Toungoumalè-Baba e altre 16 persone.

Il bilancio nel corso dei giorni è drasticamente peggiorato, fino ad arrivare  a 26 morti in un Paese che da anni si trascina nella guerra civile dai connotati solo apparentemente di stampo religioso.

In un servizio sul Centrafrica andato in onda su Tv2000, il giornalista Maurizio Di Schino sintetizza molto bene la situazione in corso e ricorda le parole pronunciate qualche tempo prima del sacerdote rimasto vittima delle violenze.  

«Solo Dio può farci uscire dalla crisi», diceva padre Albert in una intervista del 2015, alla vigilia della visita di Papa Francesco in Centrafrica.

«La violenza non risolve i problemi», afferma oggi il cardinal Nzapalainga aggiungendo: «Per carità, alziamoci in piedi per evitare di autodistruggerci».

La gendarmeria della Minusca, contingente Onu presente in Centrafrica, ha il compito di disarmare i gruppi in conflitto ma questo obiettivo per varie ragioni (non ultima, come denunciano i missionari, la mancanza di volontà per via di una presenza in gran parte mercenaria) sembra fallire.

Il tentativo di disarmare i gruppi di opposizione ha anzi scatenato l’ennesima rappresaglia contro le chiese  ei missionari, che nonostante tutto rimangono nella zona di enclave come testimoni di un conflitto sanguinario.

Il presidente della Repubblica Centrafricana Faustin-Archange Touadéra ha denunciato «la strumentalizzazione della religione», che in realtà, dice lui, serve a nutrire ambizioni di tipo politico.

«Questo conflitto non è confessionale», dice Faustin-Archange Touadéra.

Anche i missionari confermano che la religione nella guerra del Centrafrica non c’entra: «io non penso che si possa parlare di uno scontro religioso- ha detto padre Federico Trinchero, carmelitano, a diversi organi di stampa cattolici –  ed è voluto da un gruppo determinato, con un disegno chiaro e stabilito, però non si può negare che ci siano spesso episodi da una parte e dell’altra».

Le violenze nel Paese sono iniziate nel 2012, quando una coalizione di gruppi ribelli a maggioranza musulmana chiamati Séléka – che nella locale lingua sango significa “alleanza” – diedero vita a una rivolta e tre mesi più tardi presero il potere con un colpo di Stato.

A quel punto entrarono in gioco le milizie anti-balaka, composte da uomini armati e miliziani che si definivano cristiani e che stavolta hanno preso di mira la popolazione di religione musulmana.

«Attenzione a non cadere nell’errore di dare una connotazione religiosa al conflitto – ha detto di recente il giornalista Maurizio Di Schino di Tv2000 che è stato spesso in Centrafrica per i suoi reportage – L’interreligiosità qui non è mai stata messa in dubbio: i Seleka e gli Anti-balaka sono miliziani, guai a definirli in base alla religione.

Chi si macchia di sangue non può essere mai definito cristiano o musulmano».

la foto è tratta dal sito: Slate.com