Calma piatta nello svolgimento delle elezioni presidenziali, legislative e comunali in Burundi del 20 maggio scorso. Rari gli incidenti, anche per la concomitante epidemia di corona virus che ha costretto le autorità ad un’organizzazione straordinaria  delle operazioni di voto, condizionate da una logistica di emergenza sanitaria con cui tutti gli elettori hanno dovuto fare i conti.

Aperte le urne alle prime luci dell’alba, si è assistito fin da subito all’assoluta evanescenza dei protocolli  di prevenzione personale messi in piedi per l’occasione di fronte ai seggi dove fin dalle sette del mattino si sono ammassate in certi momenti della giornata lunghe file di elettori. Pochi di loro, anche con le mascherine, si sono soffermati a lavarsi le mani come previsto dalle raccomandazioni delle autorità, per non parlare del distanziamento fisico, atteggiamento sempre di difficile, se non impossibile, applicazione già negli incontri pubblici durante la campagna elettorale. Nonostante le difficoltà organizzative, non sono pochi gli elettori che dai microfoni della radiotelevisione nazionale hanno espresso una certa soddisfazione per aver potuto esprimere il loro voto nella calma e nell’ordine.

“Non come nel 2015 – ha ricordato un elettore – quando nel mio quartiere gli squadristi bruciavano i pneumatici impedendoci di arrivare al seggio”.

Molti hanno ricordato le elezioni di cinque anni fa quando il presidente uscente Nkurunziza venne eletto con più del 70% dei suffragi, seguito da quello che oggi viene considerato il candidato numero uno alla vittoria, quel Agathon Rwasa che  nel luglio del 2015 denunciò brogli massicci fermandosi al 20% delle preferenze. Intervistato dalla stampa, il presidente  del Consiglio dei Patrioti Anicet Niyonkuru ha lamentato la chiusura fin dalle prime ore del mattino -nel giorno delle urne aperte- del sistema di messaggistica whatsapp, la rete sociale più utilizzata in tutto il Paese.

“I nostri compatrioti all’estero hanno il diritto di seguire le elezioni. Notizie mi giungono da Germania, Inghilterra e Francia di nostri connazionali che sospettano imbrogli, e hanno poche possibilità di comunicare con noi per avere informazioni più dettagliate”.

Più di 5 milioni di elettori si sono recati alle urne, anche se alle 14  il trend di partecipazione a Bujumbura, la capitale del Paese, era decisamente  in controtendenza rispetto a cinque anni fa. In molte sezioni della periferia i seggi non vedevano gli affollamenti previsti, vuoi per il coronavirus,  vuoi certamente per una campagna elettorale particolarmente accesa dove non sono mancati violenze e arresti arbitrari di oppositori.

Stavolta la concorrenza politica è reale, Nkurunziza non si è potuto presentare per la quarta volta e il suo delfino -il cinquantaduenne generale Evariste Ndayishimiye, molto attivo nella ribellione hutu a cavallo tra gli anni ’90 e i primi anni 2000 – si trova di fronte ad un rivale determinato, della stessa sua etnia, leader di un partito che, quanto a credenziali per la lotta “partigiana” contro i regimi militari a maggioranza tutsi  degli anni ’80/90  non ha niente da invidiare a quel  FDD-CNDD  che  per  15 anni ha gestito il potere con mano di ferro in un guanto di velluto.   Oggi, agli occhi delle masse popolari hutu, il cinquantaseienne  vicepresidente del Parlamento Agathon Rwasa incarna la stessa legittimità politica  del gruppo Nkurunziza a gestire il potere; ambedue hanno vissuto la lotta al maquis e soprattutto si affrontano oggi democraticamente  senza l’alibi del conflitto etnico che dall’indipendenza nel 1962 ha sempre mortificato qualsiasi ragionevole confronto politico. Questa è la vera novità delle  elezioni 2020, un situazione  inedita in un paese che tuttavia è ancora intossicato dalle  inaudite violenze che nel tempo hanno fatto migliaia di morti spingendo  all’esodo nei campi profughi dei paesi limitrofi centinaia di migliaia di famiglie. Questo almeno a seguire le notizie che provengono da varie organizzazioni umanitarie presenti sul territorio burundese, tra cui la lega ITEKA che ha recensito più di 2000 vittime della repressione dal 2015 spingendo la CPI, Corte Penale Internazionale da cui il Burundi si è ritirato, ad aprire un’inchiesta sui crimini commessi tra il 26 aprile del 2015 e il 26 ottobre del 2017.    Oggi il Paese è andato ad elezioni in un clima di apparente tranquillità. Nkurunziza, che tra l’altro solo qualche giorno fa si è preso il lusso di espellere  i funzionari dell’OMS dal Paese in piena emergenza Covid 19,  si è alienato le simpatie del mondo occidentale, di cui però il Burundi non può fare a meno. La scelta di allentare la pressione per combattere una povertà sempre più diffusa va in questa direzione, anche se un fuoco pronto ad esplodere cova sotto la cenere. Certo che la decisione del potere di non accettare nei seggi gli osservatori degli Stati membri dell’EAC, Stati dell’Africa Centrale di cui il Burundi fa parte, non è di buon augurio per la trasparenza del risultato delle elezioni che si conoscerà non prima del 26 maggio. Difficile comunque prevedere una vittoria dell’oppositore Rwasa, anche se la sua campagna elettorale è stata caratterizzata da affollatissimi meeting in ogni parte del Paese. Il gruppo Nkurunziza non può permettersi di lasciare il Palazzo e i primi contraddittori risultati  che trapelano qua e là sulle colline del Burundi sembrano confermare una buona tenuta della compagine al potere da 15 anni. Se l’opposizione dovesse perdere   con risultati bulgari, inaspettati da tutti gli osservatori ma sempre possibili in una situazione non trasparente come quella che sta vivendo il Burundi,  stretto tra emergenza sanitaria e crisi economica, quali saranno le reazioni di Rwasa e dei suoi seguaci? Questa è la vera incognita che potrebbe  avere  anche sfociare in un conflitto dalle conseguenze drammatiche.

Redazione Noticum