Una foto che è una piccola storia di amicizia e di fraternità in Papua Nuova Guinea. L’ha scattata Nicolò Favetto che in questo articolo racconta cos’è stata la sua missione. 

Fin da quando ero bambino sognavo di viaggiare ed incontrare altre culture rappresentate da persone che avrei voluto conoscere in modo diretto. Amavo l’idea dell’avventura, delle danze e dei racconti tribali. Laureatomi nel 2019 in Storia e Antropologia scoprii pian piano dell’evanescenza di questi sogni ma la voglia di conoscere in me non era morta per niente, anzi semmai era aumentata.

Dopo un’esperienza missionaria con Giovani e Missione (P.I.M.E) di un mese nel Bangladesh (agosto 2018) decisi di ritentare l’impresa andando al limite delle mie capacità e per diversi mesi passai il mio tempo libero ad organizzare quello che si sarebbe trasformato in un lungo soggiorno nel Paese più inaspettato del mondo: la Papua Nuova Guinea, terra dalle 800 lingue, dalle centinaia di micro-nazionalità e marcata da una creatività
culturale pazzesca.

Quando venni a conoscenza della possibilità di soggiornare presso la comunità Jesus Good Shepred (Cavanis) di Bereina non ci pensai un secondo e decisi di partire. La realtà a breve si dimostra sempre più complicata delle aspettative: complicata ma non peggiore, basta solo saper districare i nodi. Ero partito con il desiderio di fare il giovane ricercatore armato di macchina fotografica, telecamera, diari.

Dopo aver studiato il possibile, ma se non si è in pace con sé stessi qualunque luogo in cui ti ritrovi a passare più di qualche settimana si trasforma in una prigione. La missione non richiede bandi o competenze ma lo sforzo più oneroso di tutti: saper vivere in comunità, saper pensare prima agli altri, saper capire che il bene per noi alle volte non equivale al bene per chi ci sta attorno; saper cooperare anche quando ci sembra di essere gli ultimi e più inutili, saper lasciare più di quanto si prende anche quando non ci sembra di essere abbastanza gratificati.

La Papua non è un Paese facile: il clima e le zanzare procurano malattie e numerose infezioni, il territorio è spesso segnato da faide e scontri tra diversi gruppi, i ragazzi papuani che ho conosciuto sono gente orgogliosa.

All’inizio mi lamentavo: «Sono venuto dall’altra parte del mondo per aiutarli e non vedo la loro gratitudine, anzi, mi sento addirittura preso in giro da
loro alle volte». Ma li stavo aiutando davvero? In che modo potevo pretendere gratitudine? Alla fine della missione mi sarei reso conto finalmente che sono stati loro, quei ragazzi papuani, ad aiutare me a maturare: insegnandomi, ascoltandomi pazientemente.

Durante questa crescita, scoprendo e accettando me stesso e la realtà mi sono messo nelle condizioni di fare la mia parte e dare qualcosa. Poco a poco, nonostante i rapporti iniziali non fossero dei migliori, abbiamo iniziato a cooperare, ognuno dando quello che poteva, sostenendoci, scherzando assieme mentre quella gente, scoprendo me, poco a poco si faceva scoprire mostrando i segreti della sua terra e del loro popolo ad un amico.

Non credo nella mia vita di aver chiamato qualcuno così tante volte «bro», «brother» oppure «uria» (lingua roro): parlavamo, dormivamo assieme, mangiavamo assieme, lavoravamo assieme, andavamo a far la legna nelle colline e nelle foreste assieme, collaboravamo con la comunità, condividevamo la fatica e i momenti di ristoro ma c’era lo spazio anche per esperienze incredibili.

Andare a caccia di volatili e wallaby nelle grandi distese d’erba nei dintorni, viaggiare per sentieri nella foresta tra un villaggio e l’altro, mangiare i cibi più strani, rimanere impantanati in mezzo al nulla, lavorare nell’orto, andare ad assistere a grandi celebrazioni e danze nei villaggi circostanti, passare delle giornate ad assistere a bizzarre gare di canoe in stupende spiagge tropicali.

Non essere più solo un «ahu porena» (uomo bianco) qualsiasi ma un amico con un nome per quanto difficile da pronunciare fosse tanto che ho ricevuto per semplicità pure un  soprannome papuano: Hoa.

La missione ci richiede di cambiare qualcosa di noi, farci due domande sul nostro modo di pensare, buttandoci dentro una rete di relazioni e confronti con il diverso: alle volte il diverso non è solo un uomo dalla pelle scura e il volto dipinto ma un nuovo modo di pensare noi stessi e la realtà.
La missione ci permette di scoprire nuovi talenti e di adoperare quelli che il buon Dio ci ha già donato, accettandoli.

Io per esempio, ho scoperto un certo piacere nell’insegnamento a scuola e nella scrittura, annotando ogni giorno quello che succedeva, ho imparato qualcosa sul come gestire le situazioni di conflitto.

La missione, come mi disse una saggia sister, è una piccola porta di legno aperta accanto ad un’enorme porta dorata chiusa: che fai? Stai lì, davanti alla porta chiusa oppure accetti di entrare in quella aperta? Inspiegabilmente in quella piccola porta ho trovato un enorme mondo inaspettato che ha saputo darmi molto di più di quanto immaginassi.
Non dimenticherò nulla e spero di tornare presto perché se il mio cuore è pieno di papuani, significa è diventato un po’ papuano anche lui.

 

 

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