Lo sciopero della fame in Turchia è diventato un mezzo di resistenza e protesta. A costo di morine. Come sta succedendo sempre più spesso ad attivisti, difensori dei diritti umani, artisti e comuni cittadini. L’ultimo decesso in ordine di tempo è quello di Ebru Timtik, avvocatessa per i diritti umani di 42 anni che chiedeva giustizia e processi equi.

Ebru è morta il 27 agosto scorso dopo 238 giorni di protesta, in un carcere di Istanbul.

Tra i tanti perseguitati dal “sultano” Recep Tayyip Erdogan c’è il filantropo ed attivista per i diritti umani Osman Kavala,  sostenitore di decine di battaglie della società civile turca a partire dagli anni Novanta fino alle rivolte di Gezi Park nel 2013.

Dopo essere stato arrestato e condannato a due anni di carcere, lo scorso febbraio Kavala stava per lasciare la prigione di Istanbul. Ma è tornato dietro le sbarre. Erdogan ne ha ordinato una nuova incarcerazione sulla base di accuse inedite, stavolta legate al secondo capo d’accusa: la partecipazione al fallito colpo di Stato del 2016. Quell’anno (e quell’evento) furono uno spartiacque importante per il popolo turco, poiché segnarono il successivo giro di vite del “sultano” che ha messo a tacere le molte voci dissenzienti, comprese quelle dei comuni cittadini.

«La Turchia è un Paese sempre meno libero, oggi impegnato militarmente nella guerra di Libia e di Siria, oltre che contro i curdi», denunciano i dissidenti.

Human Rights Watch, la Commissione Internazionale dei Giuristi e il Turkey Human Rights Litigation Support Project, hanno divulgato un documento congiunto per chiedere l’immediata scarcerazione di Kavala, ricordando il verdetto della Corte europea dei diritti umani.

«Le prove fornite (contro di lui, ndr) sono insufficienti» e le accuse a suo carico «servono a mettere il bavaglio ad un difensore dei diritti umani». Tenere in carcere quest’uomo è una scelta politica, concludono. Il mondo si è stretto attorno ad un perseguitato politico. Ma in Turchia i perseguitati politici aumentano di giorno in giorno.

Sempre meno liberi

La protesta, finita in tragedia, del gruppo musicale Group Yurum messo al bando da Erdogan, ha riacceso i riflettori su una realtà mai sopita: il regime decide chi può o non può esprimere la propria arte, la propria opinione, la libertà di parola.

Nel giro di pochi mesi tre componenti di questa band (famosa per la versione turca di “Bella Ciao” e per avere sempre difeso la causa curda) sono morti uno dietro l’altro durante un lungo sciopero della fame. Da due anni a questa parte non potevano più salire su un palco: erano censurati da Erdogan. Il decesso del bassista Ibrahim Gokcek ha commosso il mondo poiché è sopraggiunto subito dopo la sua decisione di sospendere la protesta.

L’emergenza Covid-19 ha ulteriormente accentuato la tendenza alla repressione, come avvenuto in molte altre “non democrazie” o regimi mascherati da sistemi democratici. Lo scrive tra gli altri il giornale Balkan Insight, spiegando che «Erdogan sta utilizzando l’opportunità fornita dalla crisi sanitaria per massimizzare il suo potere ed indebolire l’opposizione».

Una delle novità più vistose riguarda la repressione degli ordini professionali, compresi quelli degli avvocati, e le associazioni dei sindacati. Il presidente li sta perseguitando poiché si sono esposti contro alcune iniziative liberticide del clero islamico. Il problema in Turchia è anche un’“islamizzazione” anacronistica della società, che si rifà al passato imperiale ottomano (si parla di neo-ottomanesimo) e fa perno su un uso distorto della fede islamica e dei suoi precetti.

Padre Claudio Monge, domenicano, fautore del dialogo islamo-cristiano, ad Istanbul da oltre 15 anni, ci ha sempre spiegato che il problema turco non è tanto rappresentato dall’islam, quanto dal culto del sultano. «La vera emergenza turca – ci ripete – non è islamica, è nazionalista».

Padre Monge e il lockdown della fede

I mesi di Covid-19 hanno esasperato il nazionalismo, chiuso il Paese in una bolla e favorito l’arbitrio. In questo periodo Ankara ha anche accelerato la sua partecipazione alla guerra libica, sostenendo il governo di al Serraj, e guadagnando spazi in Nord Africa.

E da ultimo Erdogan ha stretto un nuovo sodalizio con Donald Trump, ribaltando la precedente rivalità tra i due leader in nome del business e del commercio. «La pandemia è stata una buona occasione per stringere i ranghi di un certo discorso nazionalistico – ci spiega padre Monge, al telefono dalla casa dei domenicani di Galata Tower -. Anche perché la Turchia alla fine degli anni Novanta aveva dimostrato molta impreparazione nelle emergenze e adesso ha recuperato consenso. Per il Covid è suonata la musica dell’amor patrio».

Il presidente ha guadagnato punti, si è mostrato efficiente; ha voluto concedere un’amnistia ai carcerati (estesa a circa 90mila persone), ma naturalmente ha lasciato dentro i dissidenti. «Questo è un grosso problema – dice ancora il domenicano -; le carceri turche pullulano di prigionieri e la gente è limitata nell’esprimere la propria voce. Si è pensato bene di sfoltire il numero di prigionieri, stavolta, ma hanno liberato i criminali, non certo i prigionieri politici o gli intellettuali».

I criminali sono fuori dalle gabbie, ma gli oppositori restano dentro. «Ci sono forme diverse di protesta che proseguono – spiega ancora Monge – e famiglie in difficoltà a causa degli arresti che hanno portato ad un totale controllo di polizia: dal 2016 ad oggi viviamo un abbassamento delle libertà personali, sempre più palpabile».

Il Covid ha aperto altre ferite

La pandemia è stata un acceleratore di disagio in Turchia, sia dal punto di vista economico che sociale: senza più turismo, completamente tagliata fuori dai radar europei (eccetto che per la breve parentesi dei campi profughi siriani in fibrillazione), privata della presenza “rassicurante” di visitatori occidentali, anche Istanbul ha sofferto il suo lockdown.

«Il blocco totale è stato una catastrofe: c’è stata una quarantena estesa a bambini e adolescenti da una parte, e ad ultra 65enni dall’altra – dice Monge -. Scelta saggia, che però ha chiuso dentro il Paese. Bar, ristoranti e cinema sono chiusi da mesi, adesso riapriranno. Ma è accaduto che certe cose si sono fermate con molta più facilità di altre… Nell’ultimo anno e mezzo certi teatri, gran parte del mondo dell’arte, la musica, sono stati messi sotto controllo».

La ripresa sarà dura in Turchia, poiché nei sistemi rigidi, una volta sottratti spazi vitali alla libertà di espressione, recuperarli è più difficile.

Un’incognita grava sul futuro di questo grande Paese diviso tra Medio Oriente ed Europa, sempre più violento e alla deriva, ostaggio di un potere che lo allontana dalla libertà e lo coinvolge in scenari di guerra. Isolandolo da un destino di prosperità (non tanto economica quanto culturale) condivisa.

(Articolo aggiornato rispetto al pezzo pubblicato dal titolo ‘Covid 19, l’alibi del sultano’, pubblicato sul mensile Popoli e Missione, nel numero di luglio-agosto, le foto sono di Alex Zappalà)