Il terrorismo jihadista continua ad infestare l’estremo nord del Mozambico e rappresenta un fattore altamente destabilizzante, soprattutto dal punto di vista della sicurezza. Stando a fonti missionarie, l’ultimo raid risale al 27 ottobre scorso ed è avvenuto nella provincia di Muidumbe, 170 chilometri a sud-ovest di Palma, dove peraltro operano aziende petrolifere straniere come l’Eni e la ExxonMobil. Il bilancio delle vittime è stato di 20 morti tra le Forze di Sicurezza mozambicane e cinque militari russi. Lo scorso settembre, sono giunti nella regione circa 200 mercenari russi del Gruppo Wagner, bene equipaggiati e addestrati. Questa presenza è legata all’intesa siglata il 22 agosto scorso a Mosca, tra il presidente mozambicano Filipe Nyusi e il suo omologo russo Vladimir Putin per aiuti militari contro il jihadismo e cooperazione nello sfruttamento degli idrocarburi. Non a caso, nell’intesa è stata coinvolta anche la Rosneft, compagnia petrolifera russa con azionariato a maggioranza statale.

I mercenari russi sono stati dispiegati in particolare tra i distretti di Macomia e Mueda, dove è massiccia la presenza delle formazioni islamiste Al-Sunna wa Jama’a, comunemente note come al-Shabab (una denominazione coniata dalle autorità locali in ossequio al movimento terroristico attivo nel Corno d’Africa, principalmente in Somalia). Mentre scriviamo, è molto alta l’allerta del governo di Maputo non solo per gli interessi legati allo sfruttamento delle commodity nel nord del Mozambico, ma anche al fatto che proprio nel distretto di Mueda è nato il presidente Nyusi. Lo scenario è inquietante: dal 5 ottobre del 2017 – data di inizio del jihadismo in Mozambico – al 27 ottobre scorso sono avvenuti complessivamente 172 attacchi. Le vittime, tra militari e soprattutto civili – molti dei quali decapitati – sono state 463.

Secondo le informazioni di autorevoli esponenti della società civile del Paese lusofono che chiedono l’anonimato, si registra sempre di più un’azione di penetrazione capillare della cultura estremista nelle moschee del Nord del Mozambico. A ciò si aggiunga il paradosso legato alle vulnerabilità economiche, sociali ed etniche della regione di Cabo Delgado. Se da una parte, infatti la regione settentrionale del Mozambico è stata definita come una sorta di “nuova Eldorado” a seguito degli investimenti operati dalle multinazionali straniere operative nel settore energetico, dall’altra persistono criticità sociali ed economiche che penalizzano la popolazione locale, esclusa dai benefici che dovrebbero derivare dal business degli idrocarburi.

Un altro dato che non deve essere affatto trascurato riguarda il network internazionale all’interno del quale si posiziona il gruppo islamista mozambicano. Infatti, l’attivismo di questi ribelli, guidati da Nuro Adremane (mozambicano) e Jafar Alawi (gambiano) – ha evidenti legami con raggruppamenti eversivi presenti lungo la fascia costiera dell’intero Corno d’Africa. I due leader infatti, secondo informative della polizia mozambicana, sarebbero stati formati in Somalia e avrebbero viaggiato clandestinamente sia in Tanzania che in Kenya. Sta di fatto che  l’operatività degli estremisti presenti in Mozambico riflette la presenza nell’Africa Sub sahariana della dottrina perversa dello Stato islamico (Isis) in Iraq e Siria, il quale, a seguito della perdita dei territori in Medio Oriente, sta tentando (non da oggi) una propria penetrazione mediante la moltiplicazione di  franchise regionali disposte a riconoscerne l’autorità politica e religiosa. Nessuno ha tra le mani una sfera di cristallo per leggere il futuro, ma è evidente che anche in riferimento a questo scenario, risuona l’illuminato pensiero di papa Francesco: «Nessuno prenda a pretesto la religione per le proprie azioni contrarie alla dignità dell’uomo e ai suoi diritti fondamentali, in primo luogo quello alla vita ed alla libertà religiosa di tutti».

 

Foto: Marco Longari/AFP